The Cove. Denuncia di un documentario di denuncia
di Matteo Andreozzi
Vincitore del premio Oscar 2009 come Miglior Documentario, The Cove è un film che in parte narra una storia di attivismo ambientalista, e in parte racconta anche se stesso, il suo concepimento e il suo making of. Diretto da Louie Psihoyos e prodotto da Paula Dupré Pesmen e Fisher Stevens, il film è scritto da Mark Monroe. Il produttore esecutivo è Jim Clark e il co-produttore è Olivia Ahnemann. Il documentario concretizza un’idea che il regista ha sviluppato dopo avere avuto una conversazione con il celebre attivista americano Richard O’Barry.
Storico addestratore di delfini (tra cui quelli protagonisti del famoso telefilm Flipper), O’Barry è divenuto ormai da trentacinque anni un convinto sostenitore delle cause ambientaliste che fanno riferimento ai cetacei e agli animali acquatici in generale. In una videointervista inclusa all’inizio del documentario, ma fatta a O’Barry molto prima che vi fosse l’idea di girare The Cove, l’attivista confida al futuro regista della pellicola un segreto agghiacciante. Esiste una baia (in inglese ‘the cove’, da cui il titolo del film) a Taiji, in Giappone, in cui ogni anno vengono clandestinamente uccisi circa 23.000 delfini. Nello stesso luogo diverse migliaia di esemplari degli stessi animali vengono catturati con metodi brutali e venduti ad addestratori di tutto il mondo. La carne dei 23.000 sterminati viene invece venduta in minima parte al mercato culinario locale, e in larga parte immessa anche nel commercio nazionale e internazionale, dove viene però spacciata per carne di balena.
Psihoyos decide di capirci di più e segue con una telecamera O’Barry a Taiji, dove l’ex addestratore confessa di recarsi spesso proprio per cercare di smascherare (sempre senza successo) lo sterminio segretamente perpetuato dai giapponesi. Non è però la visione del massacro di delfini a convincere il regista statunitense della necessità di girare un documentario che racconti ciò che accade nella piccola insenatura di quella altrettanto piccola città giapponese. È piuttosto l’impossibilità di vedere e comprendere ciò che realmente succede nella baia a tramutare Psihoyos nel regista di The Cove.
L’insenatura è infatti completamente nascosta allo sguardo umano e ogni strada percorribile via terra o via mare per avvicinarvisi non è soltanto ostruita, ma anche sorvegliata ventiquattro ore su ventiquattro da numerosi agenti delle autorità locali. Quegli stessi agenti pedinano e controllano inoltre ogni spostamento di O’Barry e, ormai, anche di Psihoyos, in quanto troppo interessati a quella zona su cui vige l’assoluto divieto di accesso. A Taiji succede qualcosa di strano e di misterioso che merita di essere raccontato e di cui, se O’Barry dice il vero, l’intera popolazione mondiale deve essere messa a conoscenza.
L’idea iniziale è quella di girare la pellicola con metodi pienamente legali, ma l’ostruzionismo e il negazionismo del governo giapponese, uniti alle continue pressioni e provocazioni della polizia locale obbligano di fatto il regista a cercare un’altra soluzione per verificare e raccontare ciò che accade nella segretissima insenatura. Viene così assemblata una squadra d’élite composta da attivisti, ex militari, esperti surfisti e apneisti che, grazie ai più avanzati mezzi tecnologici (quali microfoni subacquei, videocamere a infrarossi e telecamere nascoste all’interno di finte rocce), si infiltrano sotto copertura nella baia di Taiji e ne documentano gli orrori. Il risultato è un mix provocatorio che unisce avventura e giornalismo investigativo in un’inchiesta che ha il chiaro obiettivo di spronare non solo il pubblico, ma anche i politici di tutto il mondo a reagire.
Ho visto The Cove in anteprima nazionale al Festival dell’ambiente di qualche anno fa a Milano. Il film mi è piaciuto molto, soprattutto emotivamente. Credo sia impossibile per una persona profondamente interessata a questioni legate alla tutela e al rispetto del mondo naturale guardare questa pellicola senza iniziare a covare il segreto sogno di diventare, un giorno, un’attivista come O’Barry. Per la prima volta, inoltre, sui grandi schermi di tutto il mondo compare, seppure timidamente, un documentario che mostra le contraddittorie atrocità che l’uomo è capace di infliggere a una forma di vita non umana come i delfini, utilizzata poi come simbolo e icona di intelligenza e tenerezza animale.
La speranza è che The Cove rappresenti il modo in cui un certo tipo di questioni solitamente sgradite all’orgoglio umano stanno lentamente iniziando ad essere presentate al pubblico. Al di là dell’impatto emotivo della pellicola però, alcune idee trasmesse esplicitamente dal film mi hanno portato a pensare (questa volta razionalmente) che le cose non stanno proprio così. Qualcuno potrebbe pensare «Beh, hanno parlato dei delfini, e cioè di una piccola parte del problema dello sfruttamento della natura da parte dell’uomo, ma è sempre meglio mostrare una piccola parte che non mostrare niente, no?». La mia risposta è «No». La questione animale, così come quella ambientale, è molto complessa e articolata, ma non è divisibile in parti. Anzi, sia una che l’altra questione non sono solo interconnesse, ma sono anche a loro volta parti di un insieme di problemi culturali, sociali ed economici molto più ampi. In pratica, o si tratta il problema animale nella sua interezza, o si rischia di trasmettere informazioni non solo sbagliate, ma anche tendenziose. Questo, purtroppo, temo sia il caso di The Cove.
Nel documentario, per esempio, si spiega l’importanza di salvare i delfini tramite essenzialmente tre motivazioni, e nessuna di queste sottolinea che infliggere morte o sofferenza a un’altra forma di vita quando sarebbe evitabile è profondamente sbagliato, e spesso dannoso anche per l’ambiente. La prima ragione che spinge O’Barry a lottare da trentacinque anni per i delfini è che «se li guardi negli occhi, capisci che sono esseri senzienti». Questo è dire una parte della verità, e cioè che tutti gli animali sono esseri senzienti, o è distinguere animali senzienti, quindi non commestibili, da animali implicitamente considerati non senzienti, e quindi proprio perciò commestibili? La seconda motivazione è che «mangiare delfini in Giappone non è propriamente una cosa culturale perché la stragrande maggioranza della popolazione è ignara dei massacri di Taiji e mangia carne di delfino convinta di stare mangiando carne di balena». Questo significa che è lecito mangiare carne solo se lo si fa per motivi culturali e, di fatto, detto da un americano, sembra giustificare il perché negli States si vive di hamburger, così come il perché in Giappone si mangia la balena. La differenza, per i delfini, risiede ‘semplicemente’ nel fatto che il governo mente alla popolazione. La cultura giustifica i fini e i fini giustificano i mezzi, ma se la cultura non giustifica la mattanza dei delfini, ogni mezzo usato nei loro confronti diviene illecito e, in funzione di questo, condannabile. Il terzo motivo per il quale è stato girato The Cove è che «i delfini sono la forma di vita animale che più di ogni altra assorbe dal mare il mercurio riversatovi dall’inquinamento umano: negli ultimi decenni il mare è divenuto così inquinato che il delfino contiene una quantità di mercurio nel corpo velenosissima per l’uomo».
In pratica uccidere e mangiare delfini è ‘moralmente sbagliato’ perché, a differenza di altri animali, questi sono essere senzienti; è ‘legalmente sbagliato’ perché, nonostante non esistano leggi che ne impediscono la pesca, il Giappone abusa segretamente della loro carne; ed è infine anche ‘salutisticamente sbagliato’, perché mangiare questo cetaceo non è salutare, anche se la sua carne è di fatto commestibile.
The Cove è un bel film, con un gran finale, una splendida regia e un ottimo ritmo. Se questo però è il messaggio complessivo della pellicola ci sarebbe molto da ridire, o se non altro da aggiungere. Personalmente sconsiglio la visione di questo documentario a tutte quelle persone che hanno ancora una scarsa conoscenza dalla complessa questione animalista e ambientalista: sarebbe probabilmente solo un preteso per pensare a quanto sia marcio il ‘giardino del vicino’ e dimenticarsi, per esempio, del materiale di cui sono fatte le cinture e le scarpe che si è soliti indossare tutti i giorni. Esiste un mondo in cui si può fare a meno degli hamburger e dei delfini, e quello è esattamente lo stesso mondo che desiderano i pacifisti e tutte quelle persone avverse a ogni sistema economico basato sul profitto e il debito, e contrarie allo strapotere delle banche e delle multinazionali. Per capirlo basta semplicemente guardare il quadro nella sua totalità o reinserire se non altro ogni questione trattata singolarmente nel più vasto insieme di cui fa parte. The Cove, in questo, non vi aiuterà di certo.
Comments
11 Responses to “The Cove. Denuncia di un documentario di denuncia”Trackbacks
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[…] comparsata nel documentario. Molte delle critiche da me mosse a The Cove su queste stesse pagine (https://asinusnovus.net/2013/08/24/the-cove-denuncia-di-un-documentario-di-denuncia) sono a mio avviso traslabili anche su Blackfish. Anche in questo caso, dunque, “sconsiglio la […]
“Esiste un mondo in cui si può fare a meno degli hamburger e dei delfini, e quello è esattamente lo stesso mondo che desiderano i pacifisti e tutte quelle persone avverse a ogni sistema economico basato sul profitto e il debito, e contrarie allo strapotere delle banche e delle multinazionali”. Mi spiace, ma sono proprio frasi del genere che rischiano di far perdere credibilità a movimenti come l’antispecismo. E per il contenuto fumoso e per la sintassi piuttosto traballante. Mi auguro che nella “galassia” antispecista prendano piedi coloro che prediligono il rigore delle argomentazioni analitiche.
RIPORTO IL SEGUITO DELLA DISCUSSIONE (MIA RISPOSTA E CONTRORISPOSTA DI AUGUSTO), IN QUANTO AVVENUTO SOLO SU FACEBOOK.
Matteo Andreozzi
Ciao Augusto, non per difendere me o il mio articolo, ma credo sia opportuno contestualizzare la frase che citi. SE la frase fosse stata utilizzata in un articolo filosofico condividerei APPIENO la tua critica. La frase, però, fa parte di una recensione. Una recensione di un film-documentario, non di un libro. I riferimenti a “pacifisti”, “sistema economico”, “banche”, “multinazionali”, ecc. sono presenti ALL’INTERNO dell’oggetto recensito. Il film-documentario tiene (a volte esplicitamente, a volte implicitamente) separati i due piani e io critico questo (e non solo questo) aspetto, nella recensione. Non argomento analiticamente, come per altro prediligo fare, una teoria (tanto meno una teoria antispecista). Se lo avessi fatto non avrei utilizzato tali argomentazioni (e perchè fumose, e perchè a mio avviso troppo poco cogenti dal punto di vista etico). Detto ciò, anche io “mi auguro che nella galassia antispecista prendano piede coloro che prediligono il rigore delle argomentazioni analitiche” (possibilmente metaetiche). Ecco, magari non in recensioni, o quantomeno non in recensioni di film-documentari
Augusto Di Benedetto
Matteo, ti ringrazio della gentile e urbana risposta. Mi fa molto piacere che tu condivida il mio augurio circa il modo di condurre il discorso antispecista. Permettimi tuttavia di dire che il rigore argomentativo, la pulizia logica e in generale lo stile razionale, per quanto in forme e gradi di profondità diversi, non sono solo “da testo scientifico” (e, quindi, “non da recensione”). Anzi, se si vuol fare un discorso in senso lato “politico” (di politica cominicativa, quantomeno) bisogna forse tener conto che molto spesso e molti individui si limitano alla lettura di articoli e recensione piuttosto che di testi più articolati. Ma non è questa la ragione principale: il rigore, insomma, credo debba essere ubiquo. Per dirla con una battuta, magari poco perspicua: Kant è Kant nei “Sogni di un visionario” quanto nella “Critica della ragion pura”, fatte salve le evidenti differenze di profondità e complessità dei due testi. Saluti
Ho visto the Cove sono vegana, antispecista. I messaggi del documentario, è vero, sono plurimi, però è un film volto a sensibilizzare. Un pò come quando guardiamo quei video delle mucche liberate dai macelli che corrono felici nel prato. Che facciamo non li facciamo girare in rete solo perchè mostrano le mucche e non ad esempio i maiali? Io credo, e lo dico dopo aver a lungo riflettuto e dopo aver avuto discussioni anche accese con le persone più svariate che quest’approccio sia un pò troppo di chiusura a tutto ciò che non è antispecista al 100% e credo che sia un boomerang che non aiuta la causa. Per tornare al caso concreto ho avuto modo di far riflettere chi ha visto the cove e a chi l’ho consigliato che la mattanza dei tonni non ha niente di meno truce della mattanza dei delfini e chi non si era mai posto il problema grazie a the cove oggi se lo pone. In conclusione, dunque, ritengo che questo documentario, così come altri accendano quella lampadina che altrimenti rimarebbe spenta.
Ciao Paola, spero perdonerai il fatto che non ti risponda direttamente, ma avendo ricevuto un commento simile al tuo altrove (Facebook) ti riporto di seguito la mia risposta, sperando di di rispondere in buona parte anche al tuo commento. Aggiungo però (poco sotto) alcune osservazioni più pertinenti con la tua osservazione 🙂
“Lidia
Allora non ci occupiamo più di sperimentazione animale, di pellicce, di zoo, di cosmesi cruelty-free. Perchè questi son problemi di uno più ampio, se non si comprende il problema ampio, l’argomento specifico non fa capire l’ampio, e soprattutto non non apre uno sguardo sull’ampio, “perchè la questione animale non è divisibile in parti’. No, se è questo che si voleva dire, io non sono per nulla d’accordo.
Matteo
Ciao Lidia e grazie per il tuo commento, perché mi dà modo di chiarire alcuni aspetti che forse nel mio articolo ho espresso troppo sommariamente (concisione vs. chiarezza = 1-0). Ti rispondo partendo a ritroso. Anzitutto, nella mia recensione scrivo “La questione animale, così come quella ambientale, è molto complessa e articolata, ma non è divisibile in parti. Anzi, sia una che l’altra questione non sono solo interconnesse, ma sono anche a loro volta parti di un insieme di problemi culturali, sociali ed economici molto più ampi.” Questo è quello che io, personalmente, penso, ovviamente. Ed è altrettanto ovvio che questo pensiero sia opinabile. Ora, può darsi che tu non sia d’accordo nel vedere la questione animale come un’unica complessa questione, o che non sia d’accordo nel vedere questa come una parte di un discorso ancora più ampio e complesso (in cui anche la questione ambientale entra in gioco), e che per questi motivi tu non condivida ciò che affermo in conseguenza al mio assunto di partenza. Può darsi però anche che tu sia d’accordo con il mio assunto, ma non in ciò che io ne deduco. In ogni caso, però, io non deduco che (perdonami, ti cito) “se non si comprende il problema ampio, l’argomento specifico non fa capire l’ampio, e soprattutto non apre uno sguardo sull’ampio.” Ciò che io sostengo (questa volta cito me, perdonami) è che “In pratica, o si tratta il problema animale nella sua interezza, o SI RISCHIA di trasmettere informazioni non solo sbagliate, ma anche tendenziose.” Ho messo in maiuscolo il “si rischia” perché credo sia cruciale per il discorso. Quello che sostengo, in pratica, è che se non si considera il problema nella sua complessità, il RISCHIO che si corre è di dare messaggi che, per farla breve, sono controproducenti per l’obiettivo che ci si pone. Ricordiamo, inoltre, che sto parlando di un film-documentario: quello che sostengo è che in QUESTO PARTICOLARE film-documentario il rischio si traduce in un problema reale. Personalmente credo che, se si hanno chiari (e magari si esplicitano anche) i motivi per cui si sta difendendo una causa animalista o antispecista (es. “abbiamo il dovere di limitare la sofferenza” o “abbiamo il dovere di tutelare la vita”, per citarne un paio), non c’è alcun problema nell’argomentare SOLO contro “la sperimentazione animale, le pellicce, gli zoo, e la cosmesi non cruelty-free” prese separatamente. Nel documentario in questione, però, i motivi sono largamente lasciati impliciti. Ne vengono offerti solo tre, che io tratto nel mio articolo: “uccidere e mangiare delfini è 1) ‘moralmente sbagliato’ perché, a differenza di altri animali, questi sono esseri senzienti; è 2) ‘legalmente sbagliato’ perché, nonostante non esistano leggi che ne impediscano la pesca, il Giappone abusa segretamente della loro carne; ed è infine anche 3) ‘salutisticamente sbagliato’, perché mangiare questo cetaceo non è salutare, anche se la sua carne è di fatto commestibile.” Sono QUESTI ARGOMENTI, in riferimento a una causa parziale come quella trattata in The Cove, a essere a mio avviso controproducenti per promuovere la “causa animalista/antispecista”. Grazie ancora per avermi dato l’occasione di chiarirlo – spero di essermi ora espresso meglio.”
In aggiunta a questa mia risposta fornita a Lidia, ci tengo a precisare alcune cose della mia recensione (mi scuso se non le ho evidenziate a sufficienza nell’articolo). Anzitutto fammi dire che io, personalmente, sono d’accordo con te. Un approccio “di chiusura a tutto ciò che non è antispecista al 100%” è anche per me “un boomerang che non aiuta la causa.” Molti non saranno d’accordo con me (o forse con noi), ma io penso, come dico a Lidia, che “se si hanno chiari (e magari si esplicitano anche) i motivi per cui si sta difendendo una causa animalista o antispecista […] non c’è alcun problema nell’argomentare SOLO contro [uno degli aspetti che la compongono, preso] separatamente.” Come dico ancora a Lidia, però, non è questo ciò che penso avvenga in The Cove. È questo, infatti, il motivo per cui “SCONSIGLIO la visione di questo documentario a tutte quelle persone che hanno ancora una SCARSA CONOSCENZA dalla complessa questione animalista e ambientalista: sarebbe PROBABILMENTE solo un preteso per pensare a quanto sia marcio il ‘giardino del vicino’ e dimenticarsi, per esempio, del materiale di cui sono fatte le cinture e le scarpe che si è soliti indossare tutti i giorni.” Ecco, ho messo in maiuscolo alcune delle parole di ciò che ho scritto perché penso siano aspetti importanti del mio discorso. Non sconsiglio affatto (mea culpa, forse avrei dovuto precisarlo, ma pensavo fosse sufficientemente implicito) il film-documentario ha chi ha già conoscenza della questione animalista e ambientalista, anzi! A me il film è piaciuto “tanterrimo”. Quando O’Barry risponde alla domanda «quante volte sei finito in carcere per i delfini?» dicendo «intendi quest’anno?» ho sentito aumentare tremendamente la mia voglia di “difendere” sul campo gli animali non-umani (mica solo i delfini). Ciononostante, però, io credo che sia altamente probabile che il discorso non faccia la stessa presa su tutti e in particolar modo su chi non “frequenta” la causa animalista/antispecista. Tu dici che conosci gente che, grazie a The Cove, si è posta il problema. Io ne sono più che felice, ma tu stessa dici che queste persone hanno visto The Cove su tuo consiglio e/o hanno ricevuto tuoi commenti dopo averlo visto. La mia domanda è: senza di te, sarebbero davvero arrivati alle stesse conclusioni? Io, quando ho visto il film, ero al festival dell’ambiente. Dopo la proiezione si è parlato di ambiente (non di animali non-umani) e si è banchettato a un buffet di salumi e cose simili. E hanno tutti banchettato (tranne me, ovviamente). Perdonami se sono scettico o pessimista, ma rimango convinto che The Cove, per quanto splendido, sia un “grosso rischio”. 🙂
Paola vedo un po’ di ingenuità. Le mucche “liberate” se non vengono adottate muoiono, per il semplice fatto che non esistono mucche in natura.
Si può solo liberarle per darle ad un altro padrone.
Francesco, io vedo molta superficialità nel non considerare una liberazione la liberazione delle mucche dalle stabulazioni industriali, dalle mastiti, dalle gravidanze forzate, dalle separazioni dal loro figlio dopo tre giorni dalla nascita, dalla prevista macellazione a 6-7 anni d’età consumate da 4-5 cicli di lattazione.
Assimilare la liberazione dallo sfruttamento a un cambio di padrone è un po’ ridicolo.
è uno dei luoghi comuni più assurdi e strumentali quello per cui una mucca, o meglio una vacca, non sopravviverebbe in natura. Nulla di più falso! lo fanno benissimo e ci sono moltissimi esempi concreti, di cui personalmente mi sono occupata. ce la farebbero talmente bene da non poter essere nemmeno più “dominabili” dall’uomo, tanto si inselvatichiscono con facilità estrema (poiché la natura ha risorse infinite). il punto reale e problematico potrebbe essere come gestire i miliardi di vacche liberate, laddove avvenisse, nel primo periodo. Essendo ovviamente in numero esorbitante ciò comporterebbe delle difficoltà oggettive sul territorio in cui verrebbero re-immesse, e da non sottovalutare. Ma non ha nulla a che vedere con le poche, ahimé, vacche, che con tanti sacrifici si riescono a salvare dalla morte.
e aggiungo, Francesco, che se l’altro “padrone” fosse un rifugio in cui la vacca avrebbe la possibilità di vivere con i suoi simili, libera di esistere, socializzare, respirare aria e godere il sole, stare il più possibile lontana dalle interferenze “umane”, beh, direi che sarebbe fantastico! per lei e per noi.
http://www.repubblica.it/rubriche/la-parola/2011/12/16/news/lobby-26740927/