Dentro i laboratori. Quello che gli sperimentatori non dicono.

A cura della redazione

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Spesso il dibattito sulla sperimentazione animale si riduce ad una lotta in cui chi è contrario dipinge l’altra parte come un gruppo di sadici assassini e chi è favore pensa che gli oppositori siano dei fricchettoni pseudo-religiosi o, alla bisogna, dei semplici violenti. La questione è invece molto più complessa di come viene solitamente presentata soprattutto perché da una parte e dall’altra si parla della sperimentazione in termini  puramente astratti e ideali, dimenticando la realtà sociale in cui la sperimentazione è inserita: in questa realtà non esistono solo la Scienza e l’Etica ma esistono fattori di cui occorre tenere conto come la corsa al profitto, la natura sociale di molte malattie, la scarsa democraticità dell’informazione e dei processi decisionali, nonché della distribuzione dei fondi di ricerca e dei relativi risultati.

Se chi si oppone alla sperimentazione è troppo spesso vittima di una tendenza alla banalizzazione che gli fa trattare in modo superficiale e spesso “sensazionalistico” i problemi legati alla ricerca, lo stesso deve dirsi di coloro che sono favorevoli alla sperimentazione animale e che continuano a parlare di “scienza & progresso” come vivessimo ancora nell’800. Un dibattito serio dovrebbe partire dalla situazione reale di tutti i soggetti coinvolti (inclusi gli animali). Prima di parlare di Scienza ed Etica si dovrebbe avere il coraggio di guardare in faccia la realtà che queste parole nascondono: una realtà dura, fatta di sofferenza e angoscia per coloro che aspettano una cura, certo, ma una realtà che non corrisponde nemmeno alle fantasie interessate che dipingono la ricerca come un’impresa volta all’esclusivo benessere dell’umanità. Perché il mondo reale della ricerca biomedica e farmaceutica di questa stessa sofferenza, per tacere di quella degli animali coinvolti nella sperimentazione, spesso si fa beffe.

Ne parliamo con una persona che ha visto dall’interno la realtà della sperimentazione e che oggi lavora nel mondo della farmaceutica e che ci aiuta a vedere cosa accade nei laboratori in cui gli sperimentatori stessi non solo non vorrebbero farci entrare ma nemmeno gettare uno sguardo. Ci sembra che quando si parla del mondo della ricerca i primi a mettere in luce i suoi problemi, i suoi sprechi, le sue irrazionalità dovrebbero essere proprio gli sperimentatori: perché lo spreco di vite che la ricerca comporta – e che a giudizio di chi scrive non è giustificato in nessun caso – diventa un insulto intollerabile quando dal cielo stellato della ricerca cui guardano gli sperimentatori si passa alla squallida realtà della ricerca effettiva.

In che ramo ti sei specializzata?

Farmacologia.

Ti va di parlarci dei laboratori di ricerca dell’università in cui hai lavorato?

Sì, devo precisare che io lavoravo nei laboratori di Farmacologia ma nell’università in cui mi sono laureata si sperimentava anche in Biochimica e in Fisiologia.

Tu personalmente hai fatto sperimentazione?

Sì, anche se i miei esperimenti riguardavano organi di animali già morti.

Erano stati prima uccisi nel laboratorio?

No, venivano dal mattatoio. Quindi la vivevo come una specie di autopsia.

Saresti stata in grado di sperimentare su animali vivi?

No. I miei compagni di laboratorio lo facevano: su topi che poi venivano “ghigliottinati”. E ho assistito anche ad esperimenti su delle rane.

Ti faceva effetto?
Sì. Una volta ho raccolto i resti di un topo morto e sentire il sangue ancora caldo mi diede una brutta sensazione. E anche le rane che venivano infilzate, quando muovevano le zampe mi ricordavano il movimento di un uomo.

Pensi che ai tuoi colleghi non facesse effetto?

Ricordo che una ragazza si faceva “ghigliottinare” il topo (anzi il “ratto”) dal professore perché si impressionava. Ma altri lo facevano con “naturalezza” perché al momento di scegliere la facoltà sapevi che in quei laboratori era necessario fare esperimenti.

Pensi che la pratica della sperimentazione animale sia utile e necessaria?

In generale penso di sì perché, ad es., il sistema immunitario del ratto è molto simile a quello umano e tutti gli studi fatti sugli effetti terapeutici, collaterali, di assorbimento ecc. di un farmaco si basavano su prove eseguite sugli animali prima che sugli uomini. Devo però dire che la maggioranza degli esperimenti cui ho assistito e dei lavori di tesi sperimentali di cui sono stata a conoscenza si basavano su risultati falsati per dimostrare l’ipotesi di partenza.

Quindi la sperimentazione in questi casi non ha avuto alcun significato “scientifico”?

No, nessuno. Molte volte gli organi non rispondevano o perché erano stati isolati in modo errato o perché le apparecchiature erano vecchie e mal funzionanti.  Altre volte si facevano esperimenti su molecole simili di cui già si conosceva l’effetto attraverso esperimenti precedenti: si scopriva l’acqua calda! Insomma si tratta di animali morti senza nessun motivo se non far laureare le persone…

Per quanto riguarda invece la sperimentazione condotta ad un livello più alto pensi che le cose si svolgano in modo diverso?

Non voglio e non posso generalizzare, però posso dirti le cose che ho visto io. C’era un laboratorio che era finanziato da Telethon in cui le cose si svolgevano esattamente come nel nostro.

Quindi sperimentazioni condotte con approssimazione e risultati “falsati”?

Sì. Gli animali venivano addirittura ghigliottinati senza anestesia anche quando nei lavori prodotti si dichiarava il contrario. Noi sapevamo che l’anestesia faceva parte dei protocolli. Loro invece si trinceravano dietro al fatto che l’anestetico poteva interagire col farmaco in sperimentazione e quindi alterare i risultati. Inoltre moltissimi animali venivano allevati inutilmente: superato un certo periodo venivano uccisi perché non più “adatti” alla sperimentazione (erano diventati troppo “grandi” ecc.). Quindi di fatto erano allevati e uccisi senza essere “serviti” a nulla.

Ma questo non è normale? Non si allevano necessariamente più animali di quanti se ne possono usare?

Certo ma il problema è che in quel laboratorio non veniva fatta la sperimentazione che si supponeva si dovesse fare! Se ne faceva più nel nostro

E questo era un laboratorio finanziato da Telethon?

Già.

E dove finivano i soldi allora?
Il responsabile del laboratorio usava i laureandi per fare la spesa, per fare da badante alla vecchia madre, una volta per andare a prendere la figlia con la macchina… Un grande sperpero di denaro anche pubblico: l’Università spendeva soldi per acquistare e tenere in vita le cavie.

<p style="text-6?Y_FsGf.L52=~3XP0,BS.%5redi che nel settore privato, cioè nelle aziende farmaceutiche, tutto questo non accada? L’argomento preferito degli sperimentatori è che le aziende non possono permettersi di fare sperimentazione “inutile”.

Mi auguro di no ma la mia esperienza quotidiana nel mondo della farmaceutica mi fa sorgere parecchi dubbi. Sicuramente c’è maggiore attenzione allo spreco di denaro rispetto alle istituzioni pubbliche, tuttavia i fondi vengono investiti principalmente per immettere sul mercato nuovi prodotti. Spesso questi prodotti sono tutti simili tra loro. Quello che interessa alle case farmaceutiche è l’introduzione di un nuovo brevetto sul mercato da cui trarre profitto: l’effetto in termini di cura è secondario.

Puoi farmi un esempio?

Prendi la classica Aspirina e il Vivin C che vengono usati  indifferentemente per la cura di raffreddori e dolori articolari: fanno entrambi uso dello stesso principio attivo (l’acido acetilsalicilico) ma in proporzioni diverse. L’introduzione del Vivin C ha comportato una sperimentazione su animali che aveva come unico fine produrre un brevetto diverso ma con effetti quanto più possibile simili a quelli dell’aspirina.

Il cui principio attivo non è stato scoperto attraverso sperimentazione…

…tra l’altro. In questi casi come si può affermare che la sperimentazione è “necessaria”? Quando le case farmaceutiche sono alla ricerca di un nuovo brevetto per curare malattie che già vengono curate con altri farmaci si sta facendo, in termini oggettivi, una sperimentazione sull’animale  e sull’uomo che ha come unico fine il profitto dei privati. Oppure pensa al ricorso ai vaccini anti-influenzali sulla cui utilità è lecito sollevare più di un dubbio.

Tu credi che la ricerca sulla salute possa e debba essere portata avanti dai privati?

In teoria, se fossero onesti e non dovessero badare al profitto sì.

Gli appelli a sovvenzionare la ricerca sono fatti sempre in nome del benessere collettivo. Pensi sia possibile nella società di oggi fare ricerca medica in modo “disinteressato”?

No. Non mi sembra ci siano sufficienti garanzie né nell’ambito pubblico, né in quello privato.

Ti accuseranno di fare generalizzazioni affrettate a partire dalla tua esperienza personale.

Perché loro hanno dei criteri oggettivi e delle statistiche che garantiscono il contrario? E commissionate da chi? La verità è che non c’è alcuna chiarezza e nessuna sicurezza su come vengono investiti i fondi di ricerca e questo va a svantaggio degli umani e degli animali. Nessuno di coloro che sono coinvolti nella ricerca sembra avere interesse a denunciare la superficialità e la corruzione che ho visto all’Università e che vedo lavorando a contatto col mondo della farmaceutica. Quello che ho visto e vedo io accade e dimostra che non c’è nessun controllo effettivo su come viene svolta l’attività di ricerca.

La corruzione nel mondo dell’università è un dato tristemente famoso, soprattutto in Italia. Ma nelle farmaceutiche?

La ricerca medica associata al profitto non può che essere distorta. Non riesco a dare torto a quelli che credono che le case farmaceutiche hanno tutto l’interesse a non trovare cure per determinate malattie.

Non è una visione “complottista”?

Assolutamente no, è nella logica delle cose. Pensa ai farmaci antitumorali: è vero che in molti casi hanno migliorato le condizioni dei pazienti (quelli di ultima generazione non hanno più gli effetti collaterali dei vecchi farmaci chemioterapici) ma costituiscono innanzitutto un grande affare per le case farmaceutiche, sono costosissimi. Investire in una ricerca a lungo termine contro il cancro che non garantisce un ritorno economico immediato e che anzi può portare ad una perdita è un atteggiamento che non si concilia con gli interessi di un’azienda che trae dal mercato i propri profitti.

In effetti sembra che proprio in vista delle scadenza di molti brevetti le case farmaceutiche si siano buttate in una gara per scoprire una cura.

Esatto. Ma finché il fine sarà la massimizzazione del profitto la cura non potrà che essere un effetto secondario. Ci sono troppi esempi che lo dimostrano.

L’obiezione che si muove a questo tipo di considerazioni è che non c’è altra strada e a criticare questo sistema consolidato di ricerca-sperimentazione-commercializzazione del farmaco si finisce necessariamente per credere ai “Di Bella” o alle fantasie new-age.

Beh io personalmente ho avuto dubbi su come è stato risolto l’affare della “Terapia Di Bella”. All’università ci insegnavano che la somatostatina poteva bloccare i processi di angiogenesi ma il suo effetto terapeutico era costantemente ignorato e studiavamo solo i metodi già collaudati.

Non pensi fosse una pseudo-cura come ha dimostrato la sperimentazione imposta dal Ministero della Salute?

Anzitutto Di Bella non era un “santone”, era uno studioso serio che conosceva sia il campo medico, chimico che farmacologico. Io ho conosciuto personalmente molti pazienti che tuttora si curano con quella terapia e che ne hanno tratto beneficio: in molti casi il tumore non è scomparso ma è stato bloccato e si convive con esso in modo dignitoso. È chiaro che questo non fa “statistica” ma un elemento di cui non si tiene sufficientemente conto è che si trattava di una terapia “personalizzata” quindi adattata al paziente e in questo caso entra in gioco l’abilità del medico di comprendere il dosaggio giusto.

Questo implica però che non è possibile un criterio di verifica su larga scala.

Esatto. È uno dei tanti problemi (assieme a quello della prevenzione sociale delle malattie) che viene sottovalutato nel mondo della ricerca di oggi. In questo caso il problema è l’attenzione che il medico dovrebbe saper rivolgere all’individualità del malato, attenzione che oggi per lo più manca, anche la diagnosi e la cura sono “standardizzate”. È un fatto invece che a parità di condizioni ambientali non tutti si ammalano e non tutti si ammalano allo stesso modo. Tutto questo però difficilmente può essere verificato secondo i criteri classici. Non credo che i protocolli furono applicati in modo giusto, tenendo conto del tipo di terapia di cui si stava parlando.

All’epoca del caso “Di Bella” ci fu uno scontro nell’opinione pubblica tra sostenitori e detrattori che oggi si ripete per quanto riguarda la cura “staminale”. Credi che la ricerca dovrebbe tenere conto dell’opinione pubblica? Penso anche alla disputa tra chi è a favore e chi è contro la sperimentazione animale: spesso i ricercatori rispondono che la “scienza non è democratica” e tacciano “le masse” di essere ignoranti e di non poter avere voce in capitolo…

Penso di sì, dovrebbe avere voce in capitolo. È chiaro che l’opinione pubblica difficilmente può intervenire nel merito delle controversie scientifiche ma in una situazione ideale in cui l’opinione pubblica sia informata dei costi e dei benefici cui andrebbe incontro imponendo certe scelte dovrebbe averne tutto il diritto. Il problema vero è che non c’è nessuna chiarezza di informazione e che troppi interessi occulti prevalgono nel dibattito. L’opinione pubblica dovrebbe anzi agire come istanza di controllo e limitazione di questi interessi.

Dunque pensi che l’opinione pubblica debba sapere ciò che accade nei laboratori di ricerca?

Assolutamente sì. Non solo perché per decidere bisogna essere informati ma perché come dicevo è una forma necessaria di controllo sull’operato dei ricercatori. Ne va della nostra professionalità! Finché i laboratori saranno inaccessibili e si terrà l’opinione pubblica all’oscuro del modo in cui procede la ricerca gli abusi di cui sono stata testimone continueranno indisturbati. A detrimento della scienza e della vita degli umani e degli animali.

Comments
3 Responses to “Dentro i laboratori. Quello che gli sperimentatori non dicono.”
  1. Sergio ha detto:

    L’intervista è perfetta e l’intervistata afferma cose che io – conoscendo dal punto di vista non scientifico ma economico il settore farmaceutico – sostengo da anni.
    L’unico punto di debolezza è l’anonimato della persona intervistata che porterà (già me lo aspetto…) i sostenitori della sperimentazione animale ad affermare che è un’intervista “inventata”.
    Capisco che sia difficile ma sarebbe opportuno che in queste interviste la persona intervistata si esponesse dichiarando il proprio nome e cognome.

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