Il naufragio di Lampedusa una tragedia? No, un crimine. Di guerra

di Antonio Volpe

italians-1911L’altro ieri questo paese celebrava il lutto nazionale per la morte di un numero  ancora   imprecisato  di migranti davanti alle proprie coste.  Come se non ne morissero quasi ogni giorno e della legittimità della parola tragedia si decidesse in base a un calcolo numerico. Quale soglia numerica fa diventare una disgrazia una tragedia? Abbiamo bisogno di una certa abbondanza ormai per commuoverci e indignarci, per poter dichiarare, nominare, determinare, ufficializzare e istituzionalizzare il lutto, perché non si tratti solo di un fatto di routine che disturba appena la nostra cena.
Ma che significa un lutto nazionale per la morte di un-numero-ancora-imprecisato-di-morti – abbondanza imprecisata, pesca di cadaveri che valuta il volume che gonfia la rete, escludendo a priori la singolarità di quei corpi – che chiamiamo stranieri ed extracomunitari? Addirittura clandestini, irregolari, perché non solo non sono cittadini italiani, ma il loro valicare i confini nazionali implica già un reato penale? Chi, a nome di chi e cosa, celebra per chi il lutto? Lo Stato Italiano celebra il lutto per la morte di un-numero-ancora-imprecisato di stranieri in fuga da nazioni lontane annegati nel tentativo di compiere un crimine, e lo celebra in nome dei diritti e della dignità umana?
Non è questa una sequenza di contraddizioni che metterebbe in imbarazzo anche il più sottile dei logici?
Allora diciamoci subito che questa non è una tragedia, ma un crimine. E non tanto un crimine contro l’Umanità, perché Umanità è proprio quell’astrazione che permette che le singole esistenze trapassino continuamente da persone a cose, da vite che devono essere difese a vite la cui sopravvivenza è indifferente quando non dannosa agli interessi delle prime. Ma vittime di guerra. Di quella guerra razzista planetaria che non si giustifica con delegittimate teorie razziali, ma con un impasto di differenzialismo culturale, tutela del mercato del lavoro e invasione demografica, che nasconde la necessità di mantenere in condizione di soggezione e dominio tre quarti del pianeta agli interessi economici occidentali.
Commozione, sdegno, lacrime sono una pornografica sequela d’ipocrisia da parte di una classe dirigente europea e nazionale che ha creato tutte le condizioni perché centinaia di migliaia di esistenti siano costrette da più di vent’anni ad attraversare deserti, sostare in prigioni illegali, venire derubati, umiliati, picchiati e violentati, e infine attraversare il mare in viaggi di giorni su barconi fatiscenti, la cui tenuta sembra più l’eccezione che la regola, gettati in mare prima di raggiungere le coste. Per poi finire nei lager “democratici” d’Europa, con le sole possibilità di una prigionia a tempo indefinito (bisognerà pure identificarli), di essere rispediti al punto di partenza, o di infilarsi nelle falle dei reticolati o della burocrazia per vivere vite da fuggiaschi.
Criminale è il Trattato di Schengen, che aprendo le frontiere interne dell’Europa, rende al tempo stesso sempre più complicato ottenere visti per i sempre battezzati extracomunitari. Ratifica di un’opera di comunità chiusa, dai bordi ripiegati verso l’esterno che fanno delle frontiere non luoghi di passaggio (se non per le merci) ma muraglie di una fortezza che si pensa paranoicamente assediata (notiamo di passaggio che questa stessa comunità ha le sue gerarchie, che chi è più ricco e forte conta di più e comanda sugli altri: fino alla sospensione del trattato per impedire la concentrazione del dissenso dal basso, come a Genova 2001, o alle proposte di regolamentazione della circolazione interna quando dalla Romania, si disse, si spargevano per l’Europa criminali in cerca di legislazioni più tolleranti verso la delinquenza).
Ancora più criminale è la legge Bossi-Fini, che ha trasformato la migrazione in clandestinità e reato: secondo il potenziamento parossistico della logica della cittadinanza (per cui è umano e va trattato come tale chi calca il suo suolo d’origine, secondo quel dispositivo giuridico che è l’iscrizione della nascita nella nazione, oppure si riduce a schiavo obbediente del miracolo della piccola impresa all’italiana o al caporalato, senza mai smettere di pagare il dazio per la sua colpa di non essere nato in occidente); e secondo l’equazione paranoico-securitaria migrante=clandestino=criminale (nel senso di delinquente abituale) che alla fine degli anni ’90 fu legittimata dall’intero arco parlamentare: tanto che la prima legge anti-migranti portava i nomi di Turco e Napolitano, legge che istituì i precursori di questi lager che sono i CIE (Centri d’Identificazione ed Espulsione), cioè i più democratici e umanitari CPT (Centri di Prima Accoglienza). Oggi entrambi i personaggi si scatenano a sfoggiare commozione e strazio, lo ripetiamo, ipocriti e pornografici. Da Turco-Napolitano a Bossi-Fini non si è fatto altro che stabilizzare quell’equazione infame, in modo tale da rendere il migrante criminale a priori per legge.
Ricordiamo qui anche un bel ragionamento dell’allora Ministro della Giustizia Oliviero Diliberto (Partito dei Comunisti Italiani, lo stesso che fondò i Gom per reprimere le rivolte carcerarie, i quali diedero poi quella leggendaria lezione di democrazia a Bolzaneto), che ci dà un bell’esempio del modo di ragionare della sinistra istituzionale (anche più radicale): non esiste un’emergenza sicurezza, ma noi siamo una forza popolare. E se il popolo percepisce un’emergenza sicurezza, noi dobbiamo agire come se ci fosse. A parte il coraggio per la contorsione logica, a colpire qui è l’oscenità del contenuto del ragionamento, il suo arrampicarsi sugli specchi per giustificare la deriva rovinosa della cultura della sinistra italiana: l’unico modo per rendere servizio al nostro elettorato, presunto come “popolare” (il bello e puro proletariato di una volta, verrebbe da chiosare) è colpire gli stranieri, i migranti. Tacitare cioè l’insicurezza materiale causata da una riorganizzazione socio-economica globale scatenando la classica guerra fra poveri. Oggi che la crisi economica è una realtà voraginosa, tanto che la stessa parola “crisi”, ripetuta fino alla consunzione, non significa più nulla, in una disgiunzione fra linguaggio e realtà che consegna il primo al mutismo insieme alla capacità di pensare fuori dalla ripetizione dei medesimi discorsi pietrificati, l’equazione stessa migrante=criminale è tanto scontata e ovvia da far digerire ogni cosa. I morti che si sono accumulati sulle nostre spiagge negli ultimi mesi sono parte di un meccanismo normalizzato, che non scandalizza quasi più nessuno. In questo meccanismo ognuno realizza la normalità della sua parte assegnata, comprese le associazioni umanitarie che offrono i primi soccorsi alle vittime dei vari naufragi.
Dunque il lutto pubblico di due giorni fa, celebrato e festeggiato da una nazione che considera gli stranieri oggetti o merce avariata da scaricare in mare, è un gigantesco lavacro per un’infinita catena di sciagurate azioni, pubbliche o private ma pur sempre politiche (forse anche per la mai menzionata, come fosse svanita nell’oblio, Kater I Rades, nave albanese speronata nel ’96 da una vedetta della sempre generosa Guardia di Finanza, che colò a picco insieme a 108 extracomunitari: un numero forse non sufficiente per dichiarare il lutto). Ma non illudiamoci che si tratti di lavare colpe, consce o inconsce. Si tratta di presentarsi ripuliti alla legittimazione di un diverso regime di discorso, forse dal tono un po’ più umanitario, ma proprio per questo più insidioso, perché riproducente le stesse logiche, gli stessi meccanismi di esclusione a priori dietro a una verniciata di buonismo. Come al solito si sono additati scafisti e trafficanti di uomini, la Comunità Europea che ci lascia soli. Si sono perfino additati i pescherecci che non sarebbero accorsi ad aiutare i migranti (senza sapere se abbiano o meno visto e riconosciuto il segnale), ma si sono iscritti nel registro degli indagati i pescatori che sono accorsi per violazione della Bossi-Fini. Si è evocata la solita vulgata neocoloniale del “aiutiamoli nei loro paesi”, ma si è aggiunta la finzione di un’autocolpevolizzazione collettiva per i mancati interventi laddove la guerra mette in fuga i disperati della terra. Più diplomazia, più interventi umanitari o più bombe, ancora non è chiaro. Quel che è chiaro è che ancora si batte sulla distinzione fra profughi e semplici migranti, come se attraversare le frontiere richiedesse la legittimazione, il dazio, dell’orrore subito sul proprio corpo e quello di amici e parenti, della disperazione, del terrore. Vuoi passare le frontiere europee? Fatti torturare. Questa legge dell’espiazione anticipata non può occultare, anzi potenzia, l’evidenza del paradigma umanista che separa e gerarchizza l’umano insieme all’interezza dei viventi dietro allo specchietto per le allodole delle Dichiarazioni Universali dei Diritti Umani (e dei manifesti della “coscienza animale”: d’altra parta anche i non umani vengono “ascoltati” solo laddove la loro condizione reale supera ogni orrore immaginabile), vergate a partire dall’idealtipo dell’Uomo Autentico: occidentale, bianco, maschio, civilizzato, razionale, cittadino. L’inclusione del resto degli umani nel Diritto avviene sempre in modo gerarchico, ratificando i rapporti di forza materiali, economici, simbolici (così come avviene per l’inclusione di alcuni non umani, più vicini all’uomo, attraverso leggi protezioniste). La differenziazione fra rifugiati e semplici migranti è l’ennesimo taglio gerarchico che permette la tenuta dell’intero impianto di gerarchizzazione e insieme di moltiplicarlo.
Questo meccanismo è ovviamente anche l’ideologia giustificazionista per mantenere in stato di soggezione neocoloniale i tre quarti del pianeta, che vivano fuori o dentro le nostre frontiere, e di saccheggiarne vite e risorse (d’altra parte la vita, nel biocapitalismo, non è risorsa umana e più in generale biologica? A ribadirlo sono i discorsi osceni che si mostrano favorevoli a un’immigrazione controllata come antidoto alla denatalità degli italiani autoctoni: ci vuole gente che lavori, paghi le pensioni, incrementi il Pil di questo paese).
Le lagnose promesse della Boldrini e di Napolitano sono esemplari di questo umanismo ormai ridotto a tragica pagliacciata, che trova appiglio in un’opinione pubblica a cui è stato scippato da decenni ogni pensiero critico e ogni possibilità anche solo di concepire una politica partecipata che immagini un mondo altro (e chi ha tentato di riappropriarsene è stato ripagato col terrore dei manganelli e delle torture, e una volta annichilito dall’esercizio più brutale del potere riassorbito dalle retoriche dello scontro di civiltà, della crisi, del pareggio di bilancio e dalla materialità di un impoverimento economico che induce dovunque immiserimento sociale).

Un minimo di pensiero critico ci dovrebbe invece trascinare fuori dalle logiche istituzionali e smontare le retoriche umaniste-umanitarie in direzione del riconoscimento della singolarità irripetibile di ogni esistenza che eccede le categorie dell’etnia, della cultura, della nazionalità (e della specie). Non sarebbe allora difficile rendersi conto che il doppio registro del discorso sui migranti (dobbiamo respingerli, ma tutelare i loro diritti; benvenuto a chi rispetta le regole, chi non le rispetta torni a casa sua; regoliamo i flussi, ma aiutiamoli a casa loro) è il dispositivo atto a creare quella dissonanza cognitiva che c’impedisce di riconoscere lo sfruttamento globale dei non occidentali al di là e al di qua delle frontiere. Che le frontiere (interne ed esterne) sono finzioni costruite al fine di proteggere ad oltranza l’Occidente dalla fine della sua sovranità planetaria, e non a proteggere la democrazia, l’identità culturale (altra ridicola finzione mitica e mitopoietica, dal momento che esistono solo passaggi e contaminazioni, e ogni presunta identità è talmente incrinata al suo interno da frammentarsi da sé in infinite differenze e alterità), la sicurezza dei cittadini (la retorica paranoico-securitaria che permette di governare trasformando la paura in sentimento fondamentale e primario). Che “aiutarli a casa loro” con i prestiti delle istituzioni economiche sovranazionali e gli interventi (di nuovo, non a caso, “umanitari”) delle Ong serve solo a perpetuare, malcelandolo, il saccheggio delle loro risorse e della loro vita, inchiodandoli ancora di più alla loro impotenza indotta, per di più indebitandoli (economicamente e simbolicamente) infinitamente verso di noi, creando così un groviglio di dipendenze indipanabile.

Vomitare fuori le retoriche che ci avvelenano, insieme al paradigma umanista. Riconoscere che questo pianeta è (in ogni senso) un luogo di passaggio e che non serve l’elargizione di diritti da parte di alcuno per percorrerlo in ogni direzione secondo gli infiniti desideri singolari. Che non serve aiutare nessuno, ma solo cessare di saccheggiare, estorcere, opprimere – in genere attraverso prestanomi che ci permettono di rovesciare le “nostre” colpe su di “loro” – bombardare (anche con la scusa di liberare – da che, se non dalla schiavitù imposta dall’occidente, e per poter imporre schiavitù nuove e più insidiose?). Infrangere le frontiere, a partire da quella che distingue noi da loro. Per riconoscerci come le infinite differenze di un unico mondo che è sempre un altro mondo, abitato da un noi altri il cui accento cade sul secondo termine, che infrange il primo (tutti quanti noi, altri agli altri, altri con gli altri, senza un noi collettivo che ci sussuma e fonda). Aprendo un mondo di altri singolari che non possono più, grazie a frontiere e confini, eludere l’incontro e la relazione. Esistenziale (ma senza esistenzialismo, prego), etica, e politica.

Sono forse questi i primi passi per uscire dalla nostra fortezza materiale e simbolica e cominciare a camminare per davvero, viaggiare, trasgredendo in tutti sensi i confini. E cominciare a resistere, a lottare contro i crimini della guerra planetaria occidentale.
Senza discrimine, confine di specie.

Comments
2 Responses to “Il naufragio di Lampedusa una tragedia? No, un crimine. Di guerra”
  1. simulAcro ha detto:

    sottoscrivo in pieno
    A

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