Antispecismo: intervista a Leonardo Caffo di graphe edizioni.

Apparso su GraphoMania

Animalismo, specismo, antispecismo e diritti degli animali. Intervista a Leonardo CaffoSu GraphoMania parliamo spesso di animali: ci stanno particolarmente a cuore e non è un mistero. Ma non vogliamo che sia un discorso sdolcinato: secondo noi è importante guardare agli animali come esseri viventi, al pari nostro, con i loro diritti. Il fatto che noi siamo animali appartenenti alla specie umana non ci autorizza certo a trattare male gli animali non umani.

È un discorso ampio che va approfondito con chi ne sa più di noi. È per questo che abbiamo fatto una lunga chiacchierata con il dottor Leonardo Caffo, laureato in Filosofia della Mente e del Linguaggio presso l’Università degli studi di Milano (con Elisa Paganini) con una specializzazione in Filosofia delle Scienze Cognitive presso la stessa Università (con Corrado Sinigaglia e Clotilde Calabi) e attualmente Dottorando di Ricerca (PhD Student) in Filosofia Analitica presso l’Università degli studi di Torino (Supervisione di Maurizio Ferraris).

Partiamo da una spiegazione dei termini: animalismo, specismo, antispecismo e diritti degli animali. Puoi illustrarceli brevemente?
Allora: la domanda contiene parte della risposta, direi proprio la parte più importante. Ovvero, i quattro concetti che citi, sono legati: ma diversi. È bene specificarlo, non per pignoleria, ma perché spesso assistiamo a un’intercambiabilità ingenua tra alcuni di questi. Ora, non è che esista un’unica definizione di tali concetti, tutt’altro: ma possiamo lavorare su un accordo comune che, grazie a certa letteratura, può consentirmi di rispondere nel modo più preciso possibile. Animalismo è un termine recente: prima degli anni ’70, strano ma vero, il dizionario riportava la seguente definizione “chi dipinge o raffigura soggetti animali”. Curiosità a parte, l’animalismo oggi è quell’atteggiamento di riguardo nei confronti degli animali non umani ma, genericamente, non possiamo dire di più. In che senso? Nel senso che “riguardo” può voler dire almeno due cose: (1) tendere verso un atteggiamento di protezione degli animali, limitando parte delle azioni violente dell’umano verso il non umano oppure, in maniera radicalmente diversa, (2) discutere della fine del sistema di sfruttamento dell’animalità in modo definitivo abolendo, le pratiche violente intenzionali, ma anche mettendo in discussione ciò che conduce allo sviluppo di queste pratiche: giusto per atteggiarmi a filosofo, potremmo dire che (2) conduce a un’analisi critica delle condizioni di possibilità della violenza. Dunque (1) conduce a una rivendicazione dei diritti degli animali mentre (2), per continuare a collegare i vari termini della questione su cui mi hai stimolato, porta all’insediarsi, progressivo, dell’antispecismo. Mentre l’antispecismo, in modo tautologico, come si capirà dal nome, si oppone allo specismo, nel caso dei diritti degli animali questo non è necessario. Lo specismo, in senso culturale, è l’ideologia giustificazionista che conduce l’umano a produrre giustificazioni per nobilitare la violenza istituzionalizzata verso gli animali non umani e, in senso genealogico, è un atteggiamento pregiudiziale che ha portato la situazione a quelle estreme conseguenze che ora si cercano di giustificare. Lo specismo naturale, invece, come spontanea propensione verso il simile (e ostilità verso il dissimile) non è oggetto, se non in visioni filosoficamente confuse e inconsistenti, di analisi critica o rifiuto da parte dell’antispecismo. È lecito che il leone preferisca stare con il leone, come l’umano con l’umano: l’illecito è il sistema violento e immorale su cui oggi, ed è sotto gli occhi di tutti, prosegue la vita della specie Homo Sapiens. La rivendicazione dei diritti degli animali, per concludere, si caratterizza come azione interna al sistema in cui, si spera, gli animali possano essere protetti attraverso una diminuzione progressiva delle violenze e degli eccessi oltre che per mezzo di una normalizzazione del loro statuto entro le nostre società. Come si tutelano i nostri diritti, anche i loro dovrebbero avere lo stesso trattamento. L’antispecismo, sia esso concepito come questione morale e filosofica, che come questione politica e pratica (le cose vanno, solitamente, di pari passo), è invece un rifiuto deciso del sistema stesso che, non può essere semplicemente sistemato eliminando la violenza verso gli animali perché, sarà chiaro, se non si toccano e ridiscutono le premesse stesse che hanno permesso questa violenza le cose, per animali umani e non umani, non cambieranno mai radicalmente.

Il termine specismo è stato coniato nel 1970 da Richard RyderCi potresti dare qualche coordinata storico/filosofica più approfondita sull’antispecismo?
Il termine specismo è stato coniato nel 1970 da Richard Ryder [in foto], ma il primo tassello architettonicamente consistente, nel panorama della filosofia antispecista, si deve a Peter Singer: era il 1975, con la pubblicazione di Animal Liberation – ormai un classico sul tema. Con Singer comincia l’antispecismo di derivazione utilitarista: quando agiamo, dice Singer, dobbiamo tenere in considerazione tutti gli individui interessati dal raggio delle nostre azioni. Se agire significa guadagnare più di quanto gli altri perdono, allora non siamo moralmente autorizzati ad agire. Per individui, chiaramente, Singer intende animali umani e non umani e, se tanto ci dà tanto, non possiamo più mangiare gli animali non umani: il nostro piacere, infatti, non è lontanamente paragonabile alle sofferenze a cui li sottoponiamo. Negli anni ’80, giusto per citare un altro classico filosofo, Tom Regan lavora a un antispecismo di matrice giuspositivista: se diamo certi diritti agli umani, infatti, non c’è nessun buon motivo per non attribuirli anche agli animali non umani. Ma è anche un antispecismo giusnaturalista: nel senso che ogni animale, in quanto “soggetto di una vita”, è portatore di alcuni diritti intrinseci che rendono ingiustificabile lo specismo. Molti altri filosofi hanno lavorato affinando, modificando e rielaborando, le premesse generali dell’argomentazione antispecista. Tra questi, per citare i più noti, ci sono senz’altro Tzachi Zamir, Carol Adams, Paola Cavalieri, Donald Van De Veer ma anche Ralph Acampora e Matthew Calarco. C’è poi un’altra data simbolica, quella della pubblicazione di Animal Rights/Human Rights: Entanglements of Oppression and Liberation di David Nibert che, nell’ormai lontano 2001, argomenta in modo più consistente in favore di una visione politica dell’antispecismo che leghi, a doppio filo, la questione dei diritti animali con quella dei diritti umani. Stupidamente, va detto con decisione, alcuni dividono l’antispecismo legato alla filosofia analitica (Singer, Regan, ecc.) da quello legato alla filosofia continentale (Calarco, Acampora, ecc.): a mio parere, invece, proprio entro l’antispecismo è chiaro come ormai, in filosofia, questa distinzione sia caduta lasciando spazio, come accettato da molti, a una filosofia globalizzata meno ricettiva alle dicotomie da salotti e dei filosofi della domenica.

Cosa vuol dire “liberare” gli animali? È un discorso fisico o va al di là?
Va al di là, ovviamente. Liberare gli animali significa liberare gli umani dall’idea di discriminazione dell’altro da sé: umano e non umano. Molti credono che l’antispecismo miri ad aprire le porte dei macelli: ma in realtà il compito politico e filosofico dell’antispecismo è quello di far sì che i macelli non possano proprio più essere concepiti. La liberazione degli animali è la fine dell’idea che qualcuno possa disporre di qualcun altro: un’utopia? Forse, ma se si è realizzata la distopia in cui viviamo, perché non dovrebbe realizzarsi l’utopia verso cui mira l’antispecismo?

Melanie Joy, Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le muccheRecentemente è stato pubblicato in italiano un libro che ha avuto un grande successo negli USA. L’autrice è Melanie Joy e il titolo è Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche. Ti giriamo l’affermazione del titolo in domanda: perché, secondo te, amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche?
Conosco il libro: l’autrice argomenta facendo uso della psicologia – discute delle dinamiche di gruppo, delle barriere sociali e anche dei meccanismi di difesa. Non a caso, nella sua edizione italiana, la prefazione è di Annamaria Manzoni che, proprio su meccanismi di difesa e specismo, ha lavorato in modo del tutto innovativo. Si pensi al suo In direzione contraria (Sonda, 2009). La domanda meriterebbe un’intervista a parte, ma banalmente la risposta alle tre questioni è una: perché nasciamo in una determinata cultura. In alcune parti della Cina, infatti, la domanda non avrebbe senso o, almeno, diventerebbe così: Perché mangi cani, mucche e maiali? Ludwig Wittgenstein, in Della Certezza, ci dice qualcosa che fa al caso nostro: “Il bambino impara, perché crede agli adulti. Il dubbio viene dopo la credenza”. L’antispecismo è il dubbio che viene dopo aver imparato che è normale amare un cane e ammazzare un maiale. Per questo potremmo dire che l’antispecismo è proprio quella filosofia che insegna a dubitare di tutto, a decostruire la realtà sociale, cercando di capire cosa resta al di là delle nostre convenzioni. In questo caso resta un’ovvietà: mucca, maiale e cane non abitano diversi piani morali. L’umano, ancora una volta, dispone dell’altro senza nessuna giustificazione.

Nel tuo libro Soltanto per loro. Un manifesto per l’animalità attraverso la filosofia e la politica, tu scrivi che è necessario “guardare l’altro con gli occhi dell’altro, lasciandoci avvolgere da ciò che non comprendiamo fino a trasformarci, in una vera metamorfosi, proprio nell’altro”. Ritieni che le donne e gli uomini del nostro tempo abbiano questa capacità di leggere dentro oppure si lasciano troppo spesso cullare dalle abitudini?
Siamo lontani dalla possibilità, teorizzata già da Jacques Derrida, che l’altro svanisca come altro: l’unico modo per poter realmente ripristinare una comunità non violenta, in cui la convivenza è realmente pacifica, è proprio quello di rinegoziare, fino alla sua eliminazione, il falso confine tra ciò che succede a me e ciò che capita agli altri. Se una cosa ci insegna la crisi economica attuale, questa è sicuramente la necessità di vivere per l’altro: l’egoismo dei mercati, dei paesi e dei cittadini conduce, inesorabilmente, verso la distruzione del sistema dal suo interno. Donne e uomini hanno la capacità di comprende l’altro in profondità, fa parte del nostro corredo biologico: l’empatia è proprio questa propensione a iscrivere l’altro in se stessi, a farlo scomparire in noi. Chi non è in grado è il cittadino: ovvero l’umano culturale che vive in un modo completamente egoista perché le nostre società educano all’individualismo, all’arrivismo, alla competizione – ovvero a superare l’altro con ogni mezzo, anche violento. Il “cittadino” è un concetto parte di quella realtà sociale che dobbiamo decostruire: dobbiamo ripartire dall’umano, ovvero dall’animalità dell’umano, in modo tale che si possa ricostruire un sentiero in cui si comprenda, definitivamente, che la mia vita dipende dalla tua esattamente come i corpi, anche i più lontani fra loro, si influenzano reciprocamente in questo nostro universo.

Un tuo articolo ha per titolo: “Antispecismo della disobbedienza civile”. Quanto c’è di disobbediente (alla cultura dominante, alla società, alle tradizioni, alle religioni…) essere antispecista?
Molto: è tautologico. Si pensi a Thoreau, che della disobbedienza civile fu il teorico principale. Egli si rifiutava di pagare le tasse per non partecipare al finanziamento della guerra proprio come, un antispecista, si rifiuta di comprare oggetti legati alla sofferenza animale per non fomentare la logica del mattatoio. Sia Thoreau che gli antispecisti sono coscienti, sia chiaro, che l’effetto soglia (la legge della domanda economica) rende “inutili” questi gesti: ma adeguarsi alle proprie idee e filosofie è un gesto necessario, a meno di assoluta irrazionalità e incoerenza. Spiega tutto bene Thoreau, proprio in Disobbedienza Civile, quando afferma: “Come può un uomo accontentarsi semplicemente di prendere in considerazione un’opinione, e compiacersi di ciò? Di che cosa si compiace se la sua opinione è che egli viene danneggiato?”. Non possiamo solo filosofare sull’antispecismo senza adeguare le nostre azioni: disobbedienza civile vuol dire rifiutare le imposizioni del sistema, in modo non violento, anche a scapito di propri personali vantaggi. Una perfetta definizione di antispecismo ante litteram, vorrei dire.

Lo hai accennato in una precedente risposta, ma te lo chiedo lo stesso per approfondire: vn vero amico degli animali, dev’essere necessariamente vegetariano/vegano?
Mah… banalmente sì, nel senso che è difficile che io sia amico di Flavio, per dire, se poi me lo mangio. Vorrei però far notare che la locuzione “amico degli animali” è problematica. Con la parola “animali”, faceva notare Derrida in L’animale che dunque sono, comprimiamo l’infinita varietà dei viventi: non è già questa discriminazione? Direi di si: e molti altri filosofi, si pensi a Carol Adams, hanno argomentato in favore di una rivisitazione di un linguaggio che contiene, al suo interno, tutta una serie di dispositivi dello specismo. Non esistono amici degli animali, così come non esistono amici delle donne, dei neri o dei commercialisti. L’amicizia è una relazione complessa, che lega due individui che vivono in modo unico e irripetibile un’esperienza di intreccio tra diverse esistenze. Che vuol dire essere amico di una determinata categoria? Niente, ovviamente. Va da sé, come dicevo, che nessuno può avere un rapporto di amicizia con il suo pranzo.

Quanto può il web con i suoi siti, blog, forum, social network e via dicendo aiutare le persone a porsi delle domande che facciano poi scaturire delle azioni concrete?
Tanto. Ma il web è senz’altro la filosofia in pratica: il sogno irrealizzato del catalogo di tutti i cataloghi. Anche l’antispecismo, come parte della filosofia morale e politica, si giova di questo strumento. Siti, blog, e riviste online permettono di cominciare ad avvicinarsi a un mondo complesso e sommerso: incrociare lo sguardo di un maiale trucidato, magari in un video, può essere occasione per ricercare nella vita vera quello stesso sguardo sperando che un giorno, questi incroci tra viventi di specie diverse, siano incroci di relazioni libere e autentiche. Forum e social network, se usati con intelligenza, possono essere spazi per primi incontri tra persone unite dal sogno di liberazione animale e, perché no, l’inizio della realizzazione proprio di questo sogno.

Marco Maurizi, Al di là della Natura: gli animali, il capitale e la libertà (Novalogos, 2012)Potresti darci qualche indicazione bibliografica / sitografica per approfondire l’antispecismo?
Oggi la letteratura è immensa. I classici sono facilmente reperibili in libreria, da Singer a Regan, fino a più recenti libri come il citato di Melanie Joy. in Italiano consiglio, per farsi un’idea completa e articolata dell’antispecismo, l’ultimo libro di Marco Maurizi, Al di là della Natura: gli animali, il capitale e la libertà (Novalogos, 2012).

Tra i siti e le riviste di filosofia e animalismo vale la pena visitare i portali e gli spazi web di: Antispecismo.net, Liberazioni – rivista di critica antispecista, Bioviolenza, Asinus Novus – filosofia e antispecismo e siti di associazioni antispeciste quali Oltre la Specie o Animal Equality.

A novembre uscirà il primo numero della rivista universitaria Animal Studies (edita da Novalogos) con numeri monografici dedicati all’animalità entro i suoi vari aspetti d’analisi. Ha senso leggere anche qualche romanzo, come Senza Colpa di Felice Cimatti (Marcos y Marcos, 2010) o Il lupo e il filosofo di Mark Rowlands (Mondadori, 2009). Nel 2013 uscirà un libro del sottoscritto per le edizioni Sonda dedicato alla mia umile interpretazione dell’antispecismo nelle sue basi filosofiche e, sempre da Sonda, sono reperibili alcuni importanti libri di Tom Regan, Jim Mason e Bernard E. Rollin.

Rai Educational ha recentemente dedicato uno speciale, per Rai Filosofia, all’animalità con diversi interventi e lezioni.

Infine, per avere una bibliografia più ampia, consiglio di dare un occhio al progetto “diritti animali in biblioteca” a cura della biblioteca di Pordenone. Insomma, il modo per approfondire il dibattito non manca: e io, pensando alla sofferenza di ogni singolo animale massacrato, non trovo nessun buon motivo per non farlo. E voi?

Continua a leggere su GraphoMania: http://blog.graphe.it/2012/08/13/animalismo-specismo-antispecismo-diritti-degli-animali-intervista-leonardo-caffo#ixzz23Q89wYhG

Comments
8 Responses to “Antispecismo: intervista a Leonardo Caffo di graphe edizioni.”
  1. anna mannucci ha detto:

    “Animalismo è un termine recente: prima degli anni ’70, strano ma vero, il dizionario riportava la seguente definizione “chi dipinge o raffigura soggetti animali”.”

    caro Caffo, era così fino alla fine degli anni ’80. Ciao

    Anna Mannucci, studiosa del movimento animalista italiano

  2. rita ha detto:

    Bellissima intervista Leonardo. Leggerti è sempre un piacere.

  3. L. C. ha detto:

    grazie Rita, e grazie Anna per la correzione.

  4. derridiilgambo ha detto:

    Visto che tutti ti dicono bravo io faccio il rompiscatole.
    Rispetto a certe narrazioni dello specismo tu non esiti a parlare di uno scivolamento dalla genealogia all’ideologia.
    Mi permetto di avvertire un rischio simile, laddove parli di “specismo naturale”.
    Il fatto che si osservi, in quel qualcosa che chiamiamo “stato naturale” (senza sapere bene cosa sia e cosa lo differenzi dalla “cattività” o da uno “stato di domesticazione”), una tendenza degli individui della stessa specie a “stare fra di loro”, non mi pare possa condurre a teorizzare, se non con una mossa appunto “ideologica”, che “per natura” ogni individuo preferisca gli individui della propria specie.
    Intanto ci sono i tanti fenomeni di simbiosi e di parassitismo non distruttivo.
    Sono documentate, “in natura”, forme di interazione interspecifica non predatoria.
    Ma soprattutto non si capisce cosa sia quel “per natura” che dovremmo presupporre a ciò che tu chiami (immagino sulla scia di Zamir) “specismo naturale”. Una specie di “tasto” genetico che sia attiva davanti a individui omospecifici? Un riconoscimento speculare (quell’individuo ha un odore simile al mio)? Un fenomeno di socializzazione originaria (stando coi miei genitori imparo a preferirli agli estranei)?
    Come vedi le domande, nella loro successione, implicano un allontanamento progressivo da una legge invariante.
    Fosse vero il terzo caso (come è probabile), niente sarebbe più naturale del socializzare con individui di qualsiasi specie. E in effetti, come ci raccontano gli etologi, le finestre di socializzazione primaria valgono per individui omospecifici come eterospecifici.
    Un cane che viva i primi mesi di vita con umani e gatti preferirà vivere la propria vita adulta con umani e gatti e tenderà ad avversare i rapporti con altri cani. Innaturale?
    Beh, questo sarebbe tutto da dimostrare, a partire dalla discriminazione (impossibile, a mio parere, in termini oggettivi) fra cosa sia natura e cosa non lo sia, cosa sia innato e cosa sia acquisito, cosa sia genetico e cosa “culturale”, artificiale, tecnico e così via.
    E tutta da dimostrare resterebbe la differenza qualitativa fra uno “stato naturale” o selvatico e uno di domesticazione: insomma, che il primo sia più “naturale” del secondo.
    Per fortuna (stavo per dire per natura), la natura è plastica.

  5. L. C. ha detto:

    Ciao Anton,

    non sei rompiscatole ma ti darò una risposta che non soddisferà le tue domande, per due motivi: (1) non sono in grado in un commento e (2) credo di non esserne in grado neanche in senso assoluto;

    per prima cosa io intendo lo specismo naturale in modo diverso da Zamir, come una banale propensione per i membri della propria specie che, generalmente, si preferiscono ai non membri. Comunque questo punto, che è davvero problematico e fai bene a notarlo, non costituisce un punto decisivo per una qualche mia teoria conseguente, per cui non ci può essere lo scivolamento analogo a quello “genealogia – ideologia”” perché io dello “specismo naturale” non ne faccio base per qualcosa in più;

    su natura/non natura: credo che sia possibile sostenere, a ragione, che esista qualcosa come la natura umana e, non solo, credo che si possa anche sostenere quando e come questa viene violata. Non essendo sufficiente un commento, ed essendoci altri che hanno argomentanto meglio di me, ti consiglio “Naturalmente comunisti” di Cimatti, e sempre di Cimatti, “La vita che verrà”. [ma non so perché, credo che mi dirai che li hai già letti]

    Poi si può comunque dissentire, ma credo sia questo il “bello” della filosofia: di chi ti batte le mani, non te ne fai niente. Sono i rompiscatole che ti spingono a migliorare.

  6. derridiilgambo ha detto:

    No, non ho mai letto Cimatti :-), se non gli articoli di Liberazioni. Ma mi incuriosisce, soprattutto per i suoi lavori sui primati (non so se abbia lavorato anche “con” i primati: la cosa mi farebbe doppia curiosità).
    Sulla natura umana (o scimpanzé, o gorilla, o canina, ecc…): beh, certo, poche righe non bastano, come non bastano mai per argomenti tanto immensi.

    Ma io, che sono un dilettante e un po’ me ne vanto :-), ti butto lì almeno questa banalità: e cioè che, al di là della questione ontologica, c’è un aspetto etico-politico che rende sempre le “nature” sospette. Ovviamente, banalmente, mi rifaccio a Foucault – ma anche all’odiato Heidegger, che Foucault ammise di apprezzare almeno in un’occasione (l’intervista che apre Tecnologie del sé: sorpreso anche del fatto che pochissimi avessero notato l’influenza del nazi-genio sul suo pensiero).
    Il sospetto etico-politico macroscopicamente esplicito in Foucault e occultato (“rimosso”, forse, usando un’espressione di Volpi) ma attivo anche in Heidegger, è, ovviamente e banalmente, che dietro ogni definizione della natura umana, dietro ogni sapere su di essa, ci sia un reticolo di poteri “interessati”: in termini di falsa coscienza marxiana, o di semplice “aggancio” di certe pratiche a certi vantaggi, ma anche a volte in termini espliciti: non so se conosci il dibattito neoconservatore apertosi in Germania negli anni ’60-’70 soprattutto per “merito” di Gelhen, sullo spostamento di faglia conflittuale da quella capitale-lavoro a quella intellettuali-lavoro, laddove gli intellettuali erano ovviamente gli intellettuali marxisti, filomarxisti o postmarxisti.
    Paradossalmente ma non troppo, il punto di penetrazione di questo progetto, per Gelhen, era proprio la mancanza (o carenza) di una “natura” umana, che avrebbe reso gli umani in generale (ma in particolare i lavoratori: erano quelli nelle sue mire, guarda caso) plasmabili da parte del potere.
    Prevengo la tua obiezione, che potrebbe essere: “ecco, vedi, l’effetto di una simile ‘ontologia’? Senza una natura umana non abbiamo più agganci per un’etica (come facciamo a sapere cosa possa essere oggetto di una violazione etica, senza una natura oggettiva?). Questa è la dimostrazione che le ontologie ‘negative’ aprono la strada al nichilismo etico, nella declinazione più deteriore dell’espressione”.
    A questo risponderei che Gelhen è stato forse, soltanto, più “onesto” della maggior parte dei suoi “colleghi”, che per due millenni e mezzo hanno messo in campo (un campo di battaglia) il medesimo progetto in modo più, passami l’espressione pop, “furbo” – e comodo. Spacciando performazioni di natura umana per descrizioni.
    Dovremmo quindi metterci tutti a fare la (stessa) guerra, anche se da posizione opposta? Cioè performare una natura umana adatta al… non so più cosa, dato che tutte le categorie sono tramontate: diciamo: Liberazionismo (che ormai fra noi 4 gatti è termine in voga che scatena riflessi emotivi immediatamente piacevoli e rassicuranti? :-)).
    No. Direi piuttosto che, per esprimersi alla Nancy, da difendere è esattamente l'”improprio” dell’umano (ma io direi: di tutti i senzienti): difenderlo da ogni estorsione appropriativa che voglia imporre questo o quel “proprio” al fine dello sfruttamento innanzitutto “materiale” dell’esistenza. Qui non è tanto in ballo la “libertà” dell’umano, la sua “natura” “progettuale”, ecc… quanto piuttosto l’impredicabilità dell’esistenza finita, che non può essere afferrata da concetti, categorie, definizioni, e che ci accomuna tutti, umani e non umani. Libertà qui designa piuttosto una gratuità, un essere senza ragione che non più essere catturato né da fini né da cause.
    Quindi fine di ogni performazione di nature. Una performazione pure questa? Può darsi, ma almeno una performazione che non si maschera da descrizione, e, soprattutto: una performazione che si scaglia contro se stessa, mettendo il processo in arresto, o almeno rallentandolo e indebolendolo.

    So che non sarai affatto d’accordo.
    Ma sia chiaro: ciò che non intendo mettere in discussione è l’evidenza – l’innegabile derridiano – del dolore e della sofferenza.
    Proprio da qui dobbiamo ripartire, ma senza nature, in my humble opinion.

    La domanda che ti lancio, dal centro del nostro disaccordo, è: Foucault, dov’è finito?

  7. L. C. ha detto:

    mi sa che qui ci dilettiamo tutti 🙂

    comunque:

    1. No, la roba del sistema di poteri che influenza la costruzione del concetto “natura” la capisco, ma non la condivido. Nel senso che è ovvio il rischio, evidenziato da Foucault, che qualcuno costruisca a suo modo il naturale perché così si passa alle zozzerie che evidenzi tu (c’è chi lo fa, Heidegger in questo aveva ragione): ma credo che esista la possibilità concreta di fare un dibattito sulla natura umana senza vizi ideologici, e in questo i libri di Cimatti sono importanti e, anche certi dibattiti di filosofia analitica (i libri di cimatti non lo sono) sul naturalismo (questione un po’ diversa, ma non troppo), ci insegnano che è possibile: http://plato.stanford.edu/entries/naturalism/

    2. Sai dunque a cosa mi riferisco: nel dibattito tra Chomsky e Foucault sulla natura umana io sto col primo. http://www.youtube.com/watch?v=8dgtXCTmAoI

    3. Non credo, comunque, serva necessariamente comprendere cosa sia la natura umana per fare etica, ma vedo insispensabile l’argomento che conclude che per l’uomo la morale sia naturale

    4. Su tutto il resto, lo confesso, ci devo ancora pensare.

    grazie per le varie suggestioni.

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