Terrorismo e umanismo. Due parole sulla liberazione delle cavie di Farmacologia – e l’antispecismo. Seconda parte

di Antonio Volpe

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 2. Conosce le cose come un cieco i colori: paralogismi anti-antispecisti e  paradigma umanista

È importante dire che chi in queste ultime settimane ha tentato di attaccare direttamente, con  la presunzione di smontare, il pensiero antispecista, sfrondandolo magari un po’ dall’antivivisezionismo scientifico (che appare sempre più inutilizzabile, per motivi epistemologici, ma soprattutto per il suo carattere antropocentrico), ha mostrato un’ignoranza e un ritardo culturale davvero imperdonabile. Lo schema sottostante ai tentativi di analisi sembrano poggiare tutti su uno spericolato sillogismo che si potrebbe esprimere in questo modo: l’antispecismo vuole liberare gli animali; gli animali subiscono il dominio dell’uomo; perciò l’antispecismo deve danneggiare l’uomo. Ora, questo sillogismo è falso per due motivi.

Intanto perché contiene degli errori logici interni. Per esempio dedurre dalla necessità della liberazione animale un danno per gli umani. Qui si fa strada un tipico impensato di ogni logica formale, che è un impensato politico: quando parliamo di danni per gli umani di che umani parliamo? L’ecologista anarchico Bookchin rimase molto sorpreso quando alla fine del percorso di storia naturale proposto dal Museo di Paleontologia di Parigi, a rappresentare il super-predatore umano, si trovò davanti all’immagine di un bambino. Mi sarei aspettato un magnate della finanza, commenta Bookchin, il capo di una multinazionale – in funzione simbolica, ovviamente. In termini logici qui ci troviamo davanti a una generalizzazione indebita. In termini politici a un atto ideologico che spaccia il super-benessere di alcuni per quello di tutti. Mangiare carne animale non fa bene (non fa manco male se mangiata moderatamente: ovvero non fa né bene né male) ai nostri figli. Fa bene all’industria della carne e ai suoi investitori. È una questione di interessi, non di pregiudizi morali. In cui, certo, l’etica davanti agli animali scompare o non si presenta affatto. Agli animali l’industria del loro sfruttamento, tautologicamente, fa solo male. Noi uccidiamo insomma gli animali per interesse, e qualsiasi discorso neoedonista è la maschera di questa struttura simbolico-materiale in cui siamo avviluppati. È ideologia giustificazionista. Se dall’industria della carne passiamo a quella biomedica, il discorso si fa più complesso. Da una parte, ammettendo tranquillamente che la SA sia utile, dobbiamo chiederci di nuovo: per chi? Per quali umani? Certo,(quasi) tutti noi occidentali. Ma se stiamo parlando dell’Uomo, quello universale, di cui si tratta nelle dichiarazioni universali, dobbiamo ammettere che la SA incide solo miseramente sulla “sua” salute.

Un rapporto del Global Forum for Health Research del 2004 ci informa che il 90% degli investimenti per la ricerca e lo sviluppo di nuovi farmaci è destinato a problemi sanitari che riguardano il 10% della popolazione mondiale. L’OMS che su quindici milioni di persone che muoiono ogni anno a causa di malattie infettive, il 97% è localizzato nei cosiddetti Paesi in Via di Sviluppo (World Health Report 2004). Per polmonite, tubercolosi, malaria, diarrea e HIV/AIDS, malattie che nel nord del mondo non uccidono quasi nessuno perché facilmente curabili grazie all’accesso ai farmaci e alle strutture ospedaliere, o perché debellate – l’unica eccezione è l’AIDS, rispetto alla quale la prospettiva di vita in occidente è però assai più favorevole che altrove: dai 22,9 anni dei quarantenni che non hanno avuto una buona risposta alle terapia antiretrovirali ai 51,8 dei 25enni che hanno avuto una buona risposta, a fronte dei 55,9 medi per i coetanei non colpiti dall’infezione (Studio Italian Collaborative HIV Aging Cohort). Mentre in molti paesi africani l’aspettativa di vita si è abbassata, grazie alla diffusione dell’epidemia, persino di 24-35 anni (dai dati dell’United Nation Special Session on Hiv/Aids 2001). L’impatto devastante che la mortalità per Hiv e curabili malattie infettive sull’economia di questi paesi è spaventosa. Si pensi solo ai milioni di orfani delle vittime di malattie infettive, i quali a loro volta hanno un aspettativa di vita bassissima, precipitando la vita media della popolazione. A fronte di spese immani per l’acquisto di farmaci e attrezzature mediche da parte dei governi dei paesi in via di sviluppo, che, poveri o poverissimi, devono investire parti enormi della spesa pubblica per comprare al prezzo dei paesi ricchi, la maggior parte dei loro cittadini non hanno i soldi per curarsi. Alcuni malati di Hiv/Aids iniziano le cure antiretrovirali ma sono costretti a interromperle perché restano letteralmente senza soldi. La via di sviluppo che s’immagina l’occidente per questi paesi è il proprio sviluppo economico – per lo più concentrato in dividendi di pochissimi – e il disastro per quei paesi. Anche ragionando in termini biecamente capitalisti, l’incrocio letale fra gli investimenti pubblici a vuoto e la distruzione o l’indebolimento progressivo della forza lavoro dati da fame e malattie, trasforma sempre di più i paesi in via di sviluppo in paesi eternamente in via di sviluppo, ovvero eternamente soggiogati agli interessi occidentali – nonché delle potenze emergenti (o meglio: le nuove potenze emerse) come Cina, India e Brasile, dall’economia completamente occidentalizzata. Per non parlare dei laboratori a cielo aperto, ma ovviamente segreti perché illegali – siamo nella sfera dei crimini contro l’umanità – che le multinazionali del farmaco “aprono” fra i più disperati del pianeta per sperimentare direttamente sugli umani – guarda caso in genere bambini: cosa direbbe il topolino della Foundation for Medical Research al bambino nigeriano reso cerebroleso dagli esperimenti illegali della Pfizer per testate il Trovan, mentre la multinazionale si è salvata dai processi attraverso un accordo extragiudiziale con le famiglie ma senza mai ammettere alcuna responsabilità delittousa nella vicenda? Ma le multinazionali del farmaco non si fermano al confine dei paesi poveri. Come dimostra il recente caso Glaxo in Argentina – che ha causato il decesso di 14 neonati su cui è stato testato un vaccino contro lo pneumococco, ottenendo il consenso da genitori analfabeti e falsi tutori, in assenza di monitoraggio e senza produrre documentazione clinica – esse si vanno a cercare cavie umani – infanti – anche fra i poveri dei paesi sviluppati: un paese come l’Argentina, l’ex “paese europeo” del sudamerica, ancora nella scia della crisi esplosa nel 2001 soprattutto in quanto a maldistribuzione del reddito, rappresentasse un’occasione da non perdere. Insomma, l’Uomo a cui si rivolge la ricerca biomedica è l’uomo occidentale, il cui proprio è universalizzato, anche in termini di capacità di consumo. Nel momento in cui non può comprare, l’uomo non è propriamente uomo (non è l’homo economicus della legge capitalista). Il giuridico qui, come per sua essenza, non fa che ratificare i rapporti di forza, dipendendo dal pre-giuridico che ne costituisce il nocciolo duro: la forza stessa. Il progetto umanitario di diffondere e rendere accessibile un pugno di farmaci essenziali ha sempre sbattuto il muso contro l’impenetrabilità di questo nocciolo, su cui fa perno l’intera economia mondiale, e che intesse completamente il nostro modo di guardare al mondo, immergendoci in un ordine simbolico immutabile. Per questo quando pensiamo all’Uomo pensiamo agli umani d’occidente e il nostro pensiero letteralmente ci pensa, impedendoci di saltare fuori dall’ordine simbolico-materiale predisposto dalla logica umanista i cui fronzoli umanitari non fanno che rafforzare. impedendo al nostro pensiero di saltare al di là di muri, reticolati, e confini non solo concettuali ma anche materialissimi.

D’altra parte, la promessa che la ricerca biomedica basata sulla Sperimentazione animale sbandiera contro l’antispecismo è di salvarci la vita. Qui viene in luce il carattere surrogatorio della scienza moderna rispetto al Dio della tradizione monoteista e metafisica. La ferita letale inferta dalla modernità al Dio creatore e salvifico di tale tradizione non ne ha comportato affatto la scomparsa netta, ma quel fenomeno che in genere chiamiamo secolarizzazione, per cui la carne del Dio morto è smembrata e divorata dai dispositivi che lo surrogano incorporandolo: prima la politica, poi la scienza, infine incrociate in una serie di dispositivi immunitari che finiscono per fare di ognuna lo specchio dell’altra. Caduta la possibilità di una provvidenza in senso originario (l’intervento di Dio nella storia) a tutela della vita, a farsene carico sono le forme della politica che via via si susseguono nella storia, dal Sovrano di Hobbes, a cui i sudditi cedono la possibilità di uccidere, mettendo fine alla guerra di tutti contro tutti (il più potente mitologema della modernità, col suo mitologico fondamento dello spauracchio del rischio sempre attivo della ricaduta in un fantasmatico stato di natura, mai datosi come tale), in cui il corpo politico è immaginato come l’assemblamento (l’incorporazione) dei corpi degli individui in un sovra-corpo statuale, la cui testa è il sovrano; fino al biopotere contemporaneo, che lega in una stretta reciproca il potenziamento della salute degli individui presi insieme nel concetto non più di popolo ma di popolazione, e il potenziamento dello Stato prima, poi di un Occidente transnazionale, e infine del sistema-mondo unificato dalla globalizzazione economica neoliberista. Lo slittamento da un paradigma all’altro segna lo slittamento del corpo politico come metafora, a cui si accompagnavano tutta una serie di mediazioni istituzionali, a un corpo reale, biologico, costituito dai corpi reali, biologici degli individui che lo compongono, su cui il potere ha una presa diretta. In questo secondo paradigma, quello in cui siamo installati, il discorso biologico s’innesta e penetra in tutti gli altri discorsi, dalla politica, all’economia, al diritto. E non si tratta più di metafore, appunto, ma di una vera e propria presa in carico della vita degli individui e della loro salute da parte di tutti questi saperi, regolati dal sapere biologico e biomedico. Che tanta (pre)occupazione per la vita si rovesci in un’immensa opera di morte nella presa in carico del sistema-mondo della globalizzazione capitalista è un fenomeno che si costituisce all’incrocio due vettori storici della nostra tradizione:

– Uno è quella a cui si è fatto accenno sopra: la distinzione razziale, antropologica, culturale, ontologica, fra umani propri, cioè umani autentici, e non-del-tutto-umani, non ancora umani – e qui servirebbe lo spazio per ricostruire la mai dismessa ossessione colonialista dell’occidente, che a fianco e a giustificazione della lotta globale per i propri interessi (ormai minacciati da ogni parte) continua a ragionare, anche quando lo nega, in termini di civilizzazione dei selvaggi: a questa cristallizzazione dello sguardo non sfugge, se non raramente, neanche l’intervento delle ONG, che se da una parte alleviano le coscienze dei cittadini occidentali per bene a cui non si nega mai la lacrimuccia per l’immagine televisiva del bambino agonizzante per fame e guerra, e dall’altra solleva gli organismi internazionali dai doveri davanti alle dichiarazioni dei diritti dell’uomo e tutta la cartaccia prodotta in suo nome, dalle condanne senza imputati delle violazioni di tali diritti, ai trattati stracciati prima della firma, alle miserabili donazioni internazionali sbandierate come svolte epocali. In realtà non solo avare fino all’oscenità, ma anche ancora tutte interne a un paradigma colonialista sfacciato e senza possibilità di travestimento. Soprattutto, le ONG, svolgono proprio la funzione di occultare, sebbene malamente, questo sguardo coloniale irradicabile che innerva tutto l’Occidente, dalle sue istituzioni ai suoi cittadini. Uno sguardo che si mostra anche quando ci si propone di fare il bene, ma che non può, a sua volta, nascondere la sua natura da sempre predatoria e gerarchizzante. Non si capirebbe, se ciò non fosse vero, per quale motivo fare della beneficenza in mezzo a un processo inarrestabile di spoliazione di risorse, quando si potrebbe semplicemente cessare questa rapina quotidiana. Perché il trucco della mano che dà che cela la mano che toglie funziona solo davanti a una miopia incurabile che sfiora la cecità: dato che la mano che toglie è centinaia di migliaia di volte più grande di quella che dà. La giustificazione che offrono i “realisti” ha almeno il pregio di sfrondare i discorsi da questi trucchetti da due soldi: il nostro modo di vivere è completamente diverso da quello delle popolazioni dei paesi poveri, e difendere i nostri interessi e la nostra way of life implica l’immortalità delle pratiche coloniali. D’altra parte molto di ciò che rapiniamo lo rendiamo in forma di scorie. Forse non sono in molti a sapere che diversi paesi africani comprano amianto ed eternit dall’occidente per usarlo come isolante per edifici, baracche comprese. Il ragionamento che sta alla base è molto semplice: dato che il mesotelioma da amianto colpisce in genere dopo i cinquant’anni d’età, non rappresenta un pericolo reale per chi muore prima di malaria, dissenteria e tubercolosi. Per lo stesso motivo,  alcuni economisti hanno addirittura proposto di legalizzare lo smaltimento di scorie pericolose – comprese quelle nucleari – nei paesi poveri con bassa aspettativa di vita. Il che provocherebbe in realtà  danni su tutta la popolazione: ma ormai come non pensare ai paesi poveri del pianeta come un gigantesco laboratorio a cielo aperto per lo studio di endemie ed epidemie? E allora perché limitarci a studiare il propagarsi delle malattie infettive? D’altra parte molti di questi paesi non sono anche laboratori per lo studio delle dinamiche di guerra? Perché altrimenti gli stessi paesi (Italia compresa) i cui leader condannano giornalmente la guerra, vendono armi a tutte le fazioni in campo nei conflitti locali? Certo, per i soldi. Ma non serve il complottismo per vedere quali sono i vantaggi secondari dell’osservare un intero continente come l’Africa farsi a pezzi, spesso  per quelle risorse controllate in ultima istanza dall’Occidente, che pratica una forma radicale (la guerra) di controllo sui prezzi. In questa guerra razzista globale, come la chiama Alessandro Dal Lago, (guerra, questa sì, davvero terrorista) interessi e ordine simbolico si intrecciano in maniera indistricabile. Se chiedessimo al “realista” di turno che cosa giustifica una simile distinzione nella dignità della vita, probabilmente egli ci risponderebbe la forza. Ma la forza stessa non è un dato di fatto, e invece piuttosto a sua volta un’ideologia, o una determinazione della natura delle cose che va a sua volta giustificata. Ed ecco riapparire quell’operazione di tagli che non distingue solo fra animali umani e non umani, ma, ampiamente, anche all’interno dell’umano stesso. Il biopotere non si occupa solo di potenziare la vita delle popolazioni in ordine al potenziamento dello Stato o del sistema-mondo, ma anche di operare questi tagli interni che permettono di potenziare la vita di una parte sottraendola ad un altra, che sia esterna, od interna (gli stranieri, i folli, i devianti, e le stesse classi subalterne, in una regressione impressionante dei diritti sociali e del lavoro, che mostra la “crisi” economica non tanto come un mera fase ciclica del capitalismo, ma come una vera e propria occasione per ristrutturare i rapporti di forza sociali).

– Qui si incontra il secondo vettore che ruota il potenziamento di vita in opera di morte: la logica sacrificale. Logica che abbiamo già incontrato sfrontata, parossistica, e insieme ridotta al fumetto, nei cartelloni della bambina e il topo di Foundation for Biomedical Research (vedi Terrorismo e umanismo. Due parole sulla liberazione delle cavie di Farmacologia – e l’antispecismo. Prima parte). E che chi si immagina relegata ad un antico passato dell’uomo fraintende completamente, impedendosi la visione di ciò che cade in pieno sole. Chi meglio ha, a mio parere – ovviamente Girard, ma anche Derrida e Nancy – analizzato la logica sacrificale, ha innanzitutto mostrato come essa si riproduce nella modernità con una virulenza incommensurabile a quella del mondo antico, proprio perché la modernità crede di averla abolita e non riconosce di discenderne. La sua potenza, rispetto alla sua versione antica, può essere paragonata, usando le parole di Girard, all’effetto di una ferita in un emofiliaco. Qui punteremo frontalmente alla sua natura “immunitaria”. La spada puntata verso il basso o comunque l’interno, o verso l’esterno, è la garanzia della comunità intesa come comunità organica, immanente a se stessa: insomma, come direbbe Roberto Esposito, la sua garanzia immunitaria. Se l’individuazione di un singolo capro espiatorio interno o esterno alla comunità serve a direzionare sacrificalmente il conflitto e la violenza che la percorrono internamente, allora è chiaro che dalla dichiarazione annuale di guerra interna verso gli Iloti scatenata a Sparta o le guerre delle poleis greche fra di loro, ma sopratutto delle poleis unite verso i barbari  (da bar-bar, onomatopea che indica l’assenza di un linguaggio articolato, e quindi la ‘deficienza’ di umanità), fino alle guerre dei nostri giorni, ripetiamo incessantemente lo stesso meccanismo di “mettere fuori” dalla comunità il nemico, in modo tale da scaricarvi addosso la conflittualità e la violenza che una comunità organica non è in grado di gestire al suo interno senza finire per esplodere o implodere scaricandosi addosso quella stessa violenza.
Qui il vettore gerarchizzante e quello sacrificale della nostra tradizione mostrano il loro profondissimo intreccio e la loro dipendenza reciproca, se non la loro comunanza. È solo in virtù di un sacrificio simbolico precedente a quello materiale, che quest’ultimo si può compiere. Quindi solo in virtù di una gerarchizzazione, dell’instaurazione di una serie di distinzioni binarie e gerarchiche che permettono di disegnare una scala naturae della totalità del vivente.

Ma il sacrificio è anche l’offerta di sangue  ad una qualche forma di trascendenza in cambio di un premio. Senza questo perno di rotazione ‘economico’, il sacrificio dell’altro dalla comunità non reggerebbe. In età di secolarizzazione, decapitato il riferimento verso una trascendenza che scambia il sacrificio con un premio, il riferimento, il destinatario del sacrificio diventa l’Uomo stesso che ha introiettato la trascendenza. L’Uomo diventa officiante, destinatario del rito e controdestinatario del premio. Egli dà a se stesso qualcosa in cambio di qualcosa che riceve da se stesso. Come abbiamo visto, in termini immunitari, egli sacrifica la propria libertà in cambio di più sicurezza. Sacrifica la vita alla conservazione della vita. Ma in questo sacrificio di sé, in questo autosacrificio, serve sempre un elemento di mediazione esterno, estraneo, che rappresenti l’Altro da cui immunizzarsi o che permetta l’immunizzazione. Questo meccanismo è inarrestabile perché deve perpetuarsi ad infinitum, pena il crollo del meccanismo stesso e la smagliatura nell’ordine della conservazione. La spirale che s’innesca in questa corsa converte la logica immunitaria in logica autoimmunitaria, come nelle malattie in cui il sistema immunitario di un’organismo attacca l’organismo stesso. Questa dinamica è evidente in quella guerra razzista globale di cui parla Dal Lago, a cui abbiamo accennato sopra. La guerra ai migranti, costituito da respingimenti e internamenti nei CIE, in stato di sospensione dei diritti, ma soprattutto la logica sottesa, per cui è accettabile che i migranti non possano circolare liberamente, in ragione di un pericolo di contagio culturale ed economico – come vuole la vulgata neorazzista, gli stranieri non possono, spesso neppure vogliono, integrarsi; saturano il mercato del lavoro, sottraendo occupazione agli autoctoni – è insieme la distruzione dei nostri principi costituzionali democratici e dei diritti umani che abbiamo sottoscrittto, de facto, migliaia di volte. La fanfara dei diritti umani sbanda e si sgretola davanti alla morte per annegamento di centinaia di esseri umani carenti ogni anno, agli internamenti coatti in campi di concentramento di irregolari, nell’indifferenza davanti alle richieste d’asilo che attendono nei cassetti per anni. Ma insieme alle astrazioni del diritto, in pezzi vanno anche quel che resta di quella poca cultura dell’eguaglianza e della libertà maturata nonostante tutto nell’Europa del dopoguerra, prima di venir spazzata via dal ritorno all’ordine veicolato dal neoliberismo, lasciandoci in un deserto antropologico che ha tutto l’aspetto di una sorta di happy Weimar. Una catastrofe senza dramma.

Forse il caso più evidente di logica sacrificale-immunitaria è proprio quello della sperimentazione animale. Come abbiamo visto sopra, senza alcun pudore, gli slogan della lobby biomedica girano tutte attorno alla promessa di salvare la vita. Se, come abbiamo mostrato, la caduta del riferimento ad una trascendenza costringe l’umano a ripiegare il sacrificio in un autoriferimento a sé, il compito surrogatorio della scienza si costituisce né più né meno come un inganno fondato s’un autoinganno o su di una bugia. O al limite come un’illusione dettata da una volontà d’illusione. Ci si vuole illudere che il sacrificio di milioni di senzienti non umani possa togliere quel destino a cui l’umano, crollata l’illusione di un Dio certo e provvidenziale (non mi interessa qui discutere la possibilità di dimostrare l’inesistenza oggettiva di un Dio, semmai mi interessa la capacità di presa di una fede inconsussa) è ormai interamente consegnato: la morte. La morte come nulla, o la morte come enigma o come mistero, poco conta, anche perché l’enigma si può stagliare solo sullo sfondo della possibilità (o probabilità) del nulla e dell’annientamento. Più la scienza stessa estende il suo dominio esclusivo, monopolistico, nella lettura del reale, più essa estende il suo monopolio sulle credenze umane, più il sentimento dell’incombenza dell’annientamento – o quantomeno della totale incertezza circa annientamento o salvezza – si acuisce e si fa insopportabile. La natura surrogatoria della scienza le impone però di rispondere al dilagare di questo sentimento del terribile con una doppia illusione: possiamo allontanare la morte come se questo allontanamento fosse infinito. E: grazie al progresso esponenziale del sapere, un giorno sconfiggerla completamente. Una doppia illusione che presuppone, come dicevamo poco sopra, una componente di autoinganno, o di menzogna consapevole, o persino una “filosofia” della volontà di illusione. Come che stiano le cose al proposito, e secondo i casi, a prodursi è una vera e propria rimozione della mortalità come destino o possibilità di annientamento del singolo, e della sua scomparsa agli occhi del mondo. Destino o possibilità incommensurabilmente disastrosa, perché implicante la distruzione della presenza a sé, del ricordo, degli affetti, dell’amore, che comanda dunque la contromossa di una rimozione potentissima, profondissima e virtualmente illimitata.
Se perciò da una parte il legame sacrificale con la trascendenza è reciso, riducendo il sacrificio ad assassinio e sterminio, dall’altra la frenesia dalla fuga dalla morte si fa convulsa e divorante. Tanto da volgere la mortalità in opera di morte, cioè nell’uccidere e sterminare anche in assenza di premio, o conquista, di salvezza. Più la morte si fa strada nella carne dell’Occidente, più esso si ritrae da quella in una fuga devastante e mortifera.
Ma se questa è la realtà in cui siamo immersi, non dobbiamo dimenticare che essa, come ogni realtà, è l’effetto di realizzazione di una possibilità contro altre che restano occultate, rimosse, senza però poter esser cancellate.

C’è allora, forse, la possibilità, che riconosciuto il crollo dell’economia sacrificale, in cui donare una vita altra a una trascendenza premia con l’immortalità di chi sacrifica, invece di surrogare quell’economia con una pseudo-sacrificale retta dalla volontà di illusione, si riconosca ormai la riduzione del sacrificio ad assassinio, sterminio, mera distruzione; e riconoscere che l’esistenza è insacrificabile, perché già offerta. Offerta all’esistenza stessa, alla vita e alla mortalità, che impone che la morte possa essere solo dilazionata, rinviata. Ma anche – forse innanzitutto – che l’esistenza già da sempre è offerta agli altri, prima di ogni decisione, gettata nella rete delle relazioni e degli affetti reali e possibili.
Questa rotazione dello sguardo, della nostra posizione nel mondo, potrebbe aprire alla condivisione di quella comune mortalità, vulnerabilità, passività e debolezza di cui parla Derrida, che costituisce tutti i senzienti e tutti gli essenti in un/al mondo, nella loro esistenza, corporeità e destino. Mettere in arresto il mors tua vita mea del mitologema della guerra di tutti contro tutti, per riconoscere una commortalità ontologica e sceglierla eticamente in direzione della compassione e della cura reciproca.

Un secondo errore logico del sillogismo sotteso alle critiche anti-antispeciste è però più sottile. Esso utilizza i termini uomo e animale in contrapposizione frontale. Ora, se il paradigma del nostro modo di guardare al mondo – nel bene e nel male – fosse davvero il darwinismo, gli scienziati e i filosofi che pensano l’uomo, il rapporto fra l’uomo e l’animale, l’etica che dovrebbe regolarne i rapporti, riconoscerebbero da tempo che la differenza fra homo e altre specie è di grado e non di natura, quantitativo e non qualitativo, e, dato che l’evoluzione non è un piano intelligente come vorrebbero i credenti più aggressivi, che l’evoluzione non è finita con la comparsa dell’ homo sapiens sapiens. Quindi che il tempo lineare sulla base della quale continuiamo a pensarla non produce a sua volta alcun progresso cumulativo e ascendente che culmina coll’uomo, ma una ragnatela orizzontale di forme di vita senza gerarchia, irriducibili ad attribuzione di valore. Di più (ma qui, sfondando una porta aperta del pensiero, vi troveremo oltre i custodi armati delle generalizzazioni collettive): che le specie non sono altro che effetto del tentativo umano (non innocente) di mettere Ordine nel caos di quegli eventi che sono le singolarità, le esistenze singolari non sussumibili in tassonomie, classificazioni, categorie. Come diceva un mio caro amico botanico, la ricerca sul campo svela la contraddizione e la tensione fra il mistero di un cosmo non ordinato e il tentativo di mettervi ordine attraverso la rete di saperi che gettiamo su di esso per catturarlo. Dobbiamo piuttosto ammettere che esista una trasmissione della singolarità, che però in quanto tras-missione è immediatamente tra-duzione e quindi tra-dimento, e che in questo processo si dia il fenomeno di gruppi di singolarità morfologicamente simili (non identiche, ma neppure uguali e sostituibili l’una con l’altra), in stato di instabilità costitutiva, stabili solo per l’occhio di una “specie” (autocostituitasi come tale) dalla breve esistenza, che contrae l’immensità abissale del tempo nel suo battito di ciglia. E che, appunto, insieme, il tradimento dell’identico apra ogni volta il fenomeno epifanico di una singolarità inaudita, assolutamente nuova, che deborda ogni tassonomia, mette in oscillazione le stabilizzazioni e scuote il mondo da cima a fondo.
Parlavo di Ordine e illusione di innocenza: perché quella “chiamata all’ordine” che è la tassonomia del vivente è esattamente lo strumento simbolico e materiale che permette alla finzione che chiamiamo “uomo” di porre il fondamento per la manipolazione del vivente in generale, catturando l’uomo stesso. Come abbiamo mostrato sopra, a fronte dell’astrazione giuridica del concetto universale di “uomo” portatore di diritti, e dietro il suo paravento, dietro la sua menzognera protezione, il taglio di questo “singolare collettivo” è potenzialmente infinito, e sempre in modalità gerarchizzante. È la fondazione dell’esistente – e degli enti in generale – a porre fondamento per una conoscibilità che è immediatamente manipolazione, messa a disposizione, uso e traffico. Nell’utilizzo delle cavie da laboratorio (dove questa catena di dis-posizioni – ordinamento e comando – è autoevidente) come nella divisione del lavoro, che è ormai un mercato per nulla differente da quello delle merci: in cui la proposta di “impiego”, cioè di destinare l’esistenza a qualcosa piuttosto che qualcos’altro, è sempre dipendente dalla domanda “che cosa sei?”, cioè quali sono le qualità (biologiche, psicologiche, il grado e il tipo di sapere, le abilità) che ineriscono al soggetto perché esso possa svolgere certe mansioni, e quindi venire venduto e comprato, trafficato, sulla base di un “proprio” che lo conchiuderebbe ed esaurirebbe.

I tagli dell’umano e delle specie ruotano attorno a quel macrotaglio netto fra Uomo e Animale che induce in errore perfino la logica, costringendola a utilizzare un termine particolare (uomo, una delle miliardi di specie che popolano questo pianeta) come se fosse un termine generale (L’Uomo come altro dall’Animale, dall’immensità delle specie viventi), e ipostatizza l’Animale come una sostanza collettiva che inerirebbe a tutte le specie non umane, dallo scimpanzé alla tenia saginata.
Ma qui non ci troviamo di fronte a un semplice errore terminologico e inferenziale. Se anche i discorsi degli scienziati sottendono una concezione antropocentrica e a suo modo anti-darwiniana del vivente, è perché sono anch’essi iscritti in una tradizione plurimillenaria di autobiografia umana in cui l’uomo ha preteso di uscire dall’alveo comune e differenziale degli altri viventi, autoattribuendosi  in maniera esclusiva ed escludente quei fenomeni che vanno dal linguaggio, alla cultura, alla tecnica, alla storia, all’etica, all’autocoscienza e tutti i fenomeni ad  essa correlata (autodeissi, autotelismo, razionalità ecc…) che gli permettono, autocompattandosi in un singolare collettivo indifferenziato, di porsi al vertice dell’immensità del vivente. Alla fine di questo processo interessi materiali e ordine simbolico si sono intrecciati in maniera indistricabile. Non si tratta insomma di un errore di singoli individui o di un’intera società, ma di quello che Heidegger chiamerebbe un invio destinale. Che però, giunto a maturazione, comincia a sgretolarsi.
L’antispecismo, o meglio la riflessione decostruttiva sull’antropocentrismo e il paradigma umanista, non è un affare eroico di singoli, ma l’effetto del collasso di un ordine su larga scala. Che si tratti del crollo di un ordine simbolico non implica che esso, per dirla niccianamente, non possa continuare a perpetuarsi materialmente rifiutando il proprio tramonto e imboccando la strada di un’interminabile decadenza. Qui si tratta appunto di possibilità che, in quanto tali, non si possono calcolare a priori (non solo non si può calcolare l’esito della partita fra possibilità determinate, ma neppure determinare a priori le possibilità in gioco). Lo stesso Heidegger, d’altra parte, ammoniva davanti alla possibilità che il ritiro della metafisica a favore di una storicità evenemenziale, potesse essere “utilizzata” dallo stesso impianto di organizzazione totale del mondo al fine del proprio autoincremento.

Alla fine di questa breve analisi degli “errori logici” del sillogismo di fondo che guida certe critiche all’antispecismo, viene in chiaro che l’errore più profondo è di tipo induttivo: chi parla di antispecismo non sa di che parla, non lo conosce, e ne crea un’immagine di comodo, semplificata, giornalistica, fatta di pezzetti di ingenuità, malafede, povertà di pensiero, settarismo e complottismo, completamente falsa.

Ricapitolando quello che in questa controcritica si è autoevidenziato del pensiero antispecista, possiamo sottolineare alcuni nodi della sua tessitura. Precisando che tale tessitura è caratteristica per lo più del cosiddetto secondo antispecismo, che si propone più in rottura che in continuità con quello di Singer e Regan, e continua a distinguersi da proposte neo-identitarie di rinverdimento dell’animalismo. E che, naturalmente, è espresso dalla prospettiva dell’esistente irriducibilmente singolare che qui scrive.
Ricapitoliamo i nodi come mosse progressive di un esercizio di decostruzione:

1) Decostruzione del paradigma umanista che pone l’universale astratto Uomo, operandovi dietro infiniti tagli ontologici-valoriali che permettono di decidere chi sia Uomo autentico e chi no, e quindi chi sia degno di vivere e chi no, non accedendo all’immunità del Diritto che si configura, dietro alla forma vuota dell’universale, come una distribuzione di privilegi particolari. Decostruzione delle strutture del Diritto.

2) Decostruzione dell’antropocentrismo che regge il paradigma umanista che, operando il macrotaglio fra il singolare collettivo Uomo e il singolare collettivo Animale, effetti di compressioni ontologiche categoriali, vi fa ruotare attorno tutti i tagli che distingue in degni  e non degni di considerazione etica l’interezza dei viventi. E quindi suddivisione differenziale e trasgressione del macrotaglio con redistribuzione delle facoltà che l’Uomo si attribuisce in maniera esclusiva e inconcussa (non può andare in discussione l’astrazione “Animale” senza che vada in discussione, insieme, l’astrazione “Uomo”, che si oppone alla prima in maniera funzionale).

3) Analisi puntuale e storica delle dinamiche e dei dispositivi di dominio, di sfruttamento e disciplinamento materiali degli animali umani e non umani e del vivente in generale. Ricostruzione genealogica delle loro forme. Critica di ogni “realismo” della forza.

4) Decostruzione di ogni “proprio” e “autentico”  e smantellamento dell’apparato tassonomico-categoriale del vivente in direzione della disseminazione di singolarità irriducibili in relazione sincronica e diacronica.

5) Declinazione di una diversa ipotesi di etica e di giustizia, che cor-risponda all’esistenza singolare “impropria” refrattaria ad ogni estorsione che l’ap-propri  ponendola così a oggetto di domino. manipolazione e disciplinamento, sulla base di quella commortalità condivisa che può ruotare il nostro atteggiamento dal potere di uccidere (e terrorizzare) alla possibilità della compassione e della cura.

6) Declinazione di una politeia post-umana  senza localizzazione e senza confini a priori.

Benché il pensiero antispecista non conosca linee-guida, non sia il sapete prodotto da una setta, e quindi esista un pensiero antispecista per ogni singolo pensatore, credo la maggior parte di chi ne fa la cosa del pensiero sottoscriverebbe la maggior parte di questi punti (forse non tutti la seconda parte del 4, e solo in pochi il 6). Ma ciò che conta, al di là di questa griglia ermeneutica un po’ generalizzante (che è anche una proposta di pensiero singolare), è lo sforzo comune di pensare una nuova collocazione possibile per gli animali umani e non umani, che metta in crisi il paradigma umanista-antropocentrico da ambedue le sponde del grande taglio, saltandone al di là, o al di qua. Insomma, quello svolgersi di possibilità ripiegate nella storia, e l’apertura verso un impensato inaudito.

Come accennato sopra, se questo si rende possibile, è perché il dominio del paradigma umanista e antropocentrico ha ricevuto troppe scosse epocali per reggere alle critiche, che non sono altro che il dito appoggiato s’un sistema sull’orlo della catastrofe che ne determina il completo sconvolgimento.

Questo implica, se fino ad ora non si fosse chiarito da sé, che riguardo alla questione da cui siamo partiti – la sperimentazione animale – le giustificazioni umaniste-umanitarie non reggono affatto, e si mostrano anzi come le falsificazioni in piena luce di un Occidente saturato da una volontà di potenza e dominio che lo sta ormai lacerando dall’interno.
Spingere l’Occidente del domino e della forza in direzione del suo tramonto è un compito che riguarda tutti, benché solo alcuni probabilmente se ne prenderanno carico. Il che, forse, sarà comunque abbastanza.

Intanto, dobbiamo forse dedurre da tutto ciò che è stato detto che umanesimo è terrore?

 

Guerriero che in punta di lancia
dal suolo d’Oriente alla Francia
di stragi menasti in gran vanto
e fra i nemici il lutto e il pianto

di fronte all’estrema nemica
non vale coraggio o fatica
non serve colpirla nel cuore
perché la morte mai non muore

non serve colpirla nel cuore
perché la morte mai non muore

Fabrizio De André

 

Comments
10 Responses to “Terrorismo e umanismo. Due parole sulla liberazione delle cavie di Farmacologia – e l’antispecismo. Seconda parte”
  1. Sergio ha detto:

    Condivido al 100%.
    Mi sembra che la seconda parte del punto 4 e il punto 6 siano molto in linea con il pensiero di Roberto Marchesini.

    • Giovanni ha detto:

      Marchesini è tra i pensatori pro animali (animali non umani? altranimali? postumani? postanimali?… propongo: umanali? animani? 😉 ) più roibusti, consapevoli e strutturati e la sua prosa irta e intricata trasporta il lettore che ne fa lo sforzo, a vette e orizzonti vertiginosi di nuove prospettive e possibilità di un reale alternativo da quello mortifero del nostro oggi. Direi che senz’altro qui Marchesini è molto riecheggiato. Tra l’altro, Marchesini è sempre anche molto etico nel suo pensiero (seppur, forse, non empatico più che in certa misura, nel suo ‘fare’). In sintesi: articolo di paralizzante fascino, tutto da leggere e ri-pensare.
      E, come nei più riusciti film distopici, c’è, per fortuna un momento di soffio della speranza, di stelle visibili al di là dei nembi dell’uragano: “C’è allora, forse, la possibilità, che riconosciuto il crollo dell’economia sacrificale, in cui donare una vita altra a una trascendenza premia con l’immortalità di chi sacrifica, invece di surrogare quell’economia con una pseudo-sacrificale retta dalla volontà di illusione, si riconosca ormai la riduzione del sacrificio ad assassinio, sterminio, mera distruzione; e riconoscere che l’esistenza è insacrificabile, perché già offerta. Offerta all’esistenza stessa, alla vita e alla mortalità, che impone che la morte possa essere solo dilazionata, rinviata. Ma anche – forse innanzitutto – che l’esistenza già da sempre è offerta agli altri, prima di ogni decisione, gettata nella rete delle relazioni e degli affetti reali e possibili.”

  2. Matteo ha detto:

    Ecco, c’è questo passaggio che proprio non riesco a digerire: che “l’uomo” sia una finzione, come se “singolarità” non lo sia a sua volta, e che la manipolazione del vivente abbia una fondazione, in questo caso tassonomica. Ma esiste per caso un modo di vivere che non preveda una qualche manipolazione e non è un dato ineludibile quanto la morte il manipolarci fra esseri e chi è in grado fa quello che può per il suo benessere? Se la sperimentazione animale è utile, ancorché ingiusta, la sua cessazione danneggia gli uomini, non l’uomo. Che la vita degli uomini sia più importante di quella di gran parte degli animali è un dato di fatto che non deriva da ordini simbolici, ma dalla nostra natura, come d’altronde ogni animale si considera più importante di tutti gli altri. Poi possiamo anche dire che sul piano filosofico gli esseri viventi pari sono, se vogliamo prenderci in giro. Apprezzo i punti della decostruzione, ma non concordo con la concettualizzazione del punto di vista antropocentrico. Possiamo non pensarci speciali, al vertice o al centro, ma non possiamo pensarci non uomini, o singolarità o parti del vivente interconnesse o chissà cos’altro. Sono parole, in ogni caso.

    • derridiilgambo ha detto:

      Mi sembra di aver mostrato come quelli che tu chiami uomini beneficiano della sperimentazione solo a seconda di dove sono nati, quindi quanti soldi hanno, quali sono le biopolitiche (e le geopolitiche) che li investono. Sostituire Uomo con uomini in questo contesto è un potenziamento umanitario del paradigma umanista. Sono belle parole davanti alla storia come “banco di un macellaio” di cui parla Hegel.
      Quella che tu chiami “natura” (degli uomini) poi è un effetto di processi storici che nulla hanno a che vedere con invarianti astoriche, magari biologiche, di una biologia che per di più ignora che l’evoluzione è ancora un processo storico, senza direzione a priori e senza fine . La dimostrazione è che fuori dall’Occidente esistono popoli che non distinguono fra umani e (un certo numero) di animali. Hanno avuto un’altra storia. Il che mostra, se ce ne fosse ancora bisogno, che la nostra civiltà, l’ordine simbolico in cui siamo immersi, non erano gli unici possibili. E che quindi c’è la possibilità di prendere altre strade, Che gli uomini siano specisti non è scritto nel loro DNA, come in quello di nessun animale, anche perché il riconoscimento del simile non funziona a priori su base di specie. Pensa ai cosiddetti “ragazzi selvaggi”. In più l’etologia ha mostrato l’ampiezza della collaborazione interspecifica (se dobbiamo proprio parlare, ancora, di specie). Non c’è solo competizione (bella proiezione del capitalismo che si giustifica introducendo le proprie leggi storicamente date nel resto del vivente per poi fingere di dedurle), in quell’astrazione che chiamiamo “natura”, dalla quale dovremmo allo stesso tempo cadere fuori per facoltà autoattribuite in modo esclusivo, ma anche collaborazione.
      Che poi “singolarità” sia un’astrazione, significherebbe che tu, Matteo, non avresti nemmeno bisogno del nome che ti hanno dato, non per distinguerti, ma perché sei già distinto e non intercambiabile con Antonio. La stessa cosa succede con gli animali non umani che convivono con noi, a cui abbiamo esteso la nostra considerazione morale. Pallino non è intercambiabile con Asia. Tanto che se muore Pallino (facciamo le corna) non basta andare a prendere un suo sostituto in canile o gattile per colmare il lutto della sparizione di QUELL’esistente singolare.
      Né ci innamoreremmo di quella ragazza piuttosto che un’altra, se la singolarità fosse un’astrazione e tutti fossimo intercambiabili. L’innamoramento è l’epifania della singolarità che si mostra in tutta la sua irriducibilità.
      La differenza non è commensurabile. Non è possibile fissarla in una misura, e dire: la differenza fra me e Giovanna è minore di quella fra me e Pallino. Questo è ipostatizzare. La differenza non conosce misura. Per questo la singolarità è ineludibile, e anche un limite del pensiero, perché ne eccede, e si può pensarla solo con un pensiero-limite che vada a naufragio. Di certo la si può sfiorare solo con un pensiero che sia esperienza, un fare, anzi un’avere, un’esperienza della singolarità, e non con il pensiero calcolante che chiamiamo ragione.

      Sulla forza, infine: anche se ci è possibile, perché usarla? Qual è la giustificazione all’uso della forza? Perché la forza e non l’accoglienza e la compassione? E verso chi sarebbe lecito usarla, se non verso chi abbiamo già ridotto a sacrificabile, attraverso una tassonomizzazione gerarchizzante?
      E non significa alcunché rispondere: è un istinto, perché l’istinto è un principio esplicativo assiomatico e non spiega alcunché.

      Attenzione alle affermazioni apodittiche senza argomentazione, che non procedono da un pensiero. Quelle sono “solo parole”, nel senso che sono parole vuote.

      • Matteo ha detto:

        Dal punto di vista di chi beneficia sei chiarissimo, ma come argomento non mi pare buono, nel senso che non credo che giustificheresti la sperimentazione se ne beneficiassero tutti gli uomini. Saresti contrario lo stesso, come in un certo senso lo sono anche io. Io ho parlato di uomini e non di uomo perché sono gli uomini ad esistere, non l’uomo. Che ci siano popoli che non distinguono come facciamo in Occidente, mi pare controverso. Ci sono anche popoli che non distinguono tra maschi e femmine fino a che non crescono e non si differenziano attraverso il lavoro, ma questo è il costrutto culturale, cosa pensano le persone ( e come distinguono, e cosa vuol dire distinguere? ) è un’altra storia, e non ho parlato di natura di specie, né di “natura” come costrutto culturale. Che ognuno voglia anzitutto il proprio bene e quello dei suoi figli mi pare inoppugnabile ( poi non per forza si comporterà di conseguenza ). C’è chi lo ha chiamato egoismo genetico, ma non importa come lo chiamiamo. Non mi importa arrivare a stabilire se possiamo dirci o meno specisti, né se lo siamo geneticamente, non sarebbe un motivo per giustificarci. Tutti i modi con cui chiamiamo il meccanismo di esclusione del diverso hanno un senso per come siamo fatti, e questo non deriva dalla strada che abbiamo preso come società. Le forme sono derivate ( razzismo, sessismo, specismo ), il meccanismo no. Certo c’è anche la collaborazione, pure fra piante e animali, ma è una collaborazione che ha senso per il proprio benessere, perché si è costretti a collaborare. Il senso della mia obiezione è che scardinato lo specismo rimane il fatto che la nostra presenza e la presenza di tutti gli esseri viventi è intrinsecamente conflittuale, per cui il taglio lo dobbiamo fare, non è una scelta.

        Sulla singolarità forse mi sono espresso male o non ho ben capito. D’accordo che ogni essere vivente fa storia a sé e la tassonomia è in difetto in partenza, ma la singolarità non rende insensata la distinzione, perché non siamo neanche diversi allo stesso modo. Ci innamoriamo di una ragazza piuttosto che di un’altra, ma non ci possiamo innamorare di qualsiasi singolarità. Va bene tenere a mente l’incommensurabilità delle differenze, ma la finzione umana è sensata. Che poi le sue implicazioni vadano messe ogni volta in discussione è un altro discorso.

        Sulla forza: non rispondo con l’istinto, ma con l’egoismo e la necessità. Non c’è niente che giustifichi l’uso della forza, ma questo non la rende ingiusta, perché a questi livelli non vuol dire nulla. Il problema di questi discorsi è che appunto “giustificazione, morale, etica eccetera” sono parole e le parole sono tutte vuote. È auspicabile smetterla con la sperimentazione e il resto, ma non fa molta differenza, è che abbiamo scoperto che le nostre azioni ci fanno soffrire e allora vogliamo soffrire di meno.

      • derridiilgambo ha detto:

        @Matteo
        Tu presupponi una Natura che per me non esiste. A parte che anche volendo rimanere in un simile paradigma discorsivo, la Natura è fatta di collaborazione quanto di conflitto, e il cercarvi l’egoismo ha lo stesso valore del dire che il gioco, per i predatori, ha lo scopo di insegnargli a cacciare.
        No, il gioco accade. Che questo abbia poi conseguenze sulle capacità predatorie è accidentale. Permette la sopravvivenza, ma è accidentale.
        Allo stesso modo un gesto altruistico è tale, anche se porta dei benefici a chi lo compie.
        La filosofia ha “sospettato” per tanto tempo, poi, a furia di erodere l’evidente, si è trovata davanti a qualcosa che “durava” nonostante i sospetti. Questa cosa che resiste al sospetto sono i fenomeni. Fare buona filosofia, per me, è ormai sospettare nella direzione della salvezza dei fenomeni per come si danno.
        Ma il darwinismo preso sul serio, come ho tentato brevemente di illustrare qui, non è così divergente dalla buona filosofia: se la selezione è un processo casuale, stocastico, allora l’apparizione dell’altruismo è priva di origine e scopo come quella dell’egoismo.
        Il problema è che ci siamo ubriacati tanto a lungo di metafore improntate o derivate (più o meno consapevolmente) dal darwinismo sociale (cioè la politicizzazione della biologia, e la biologizzazione della politica) come “lotta per la sopravvivenza” (che Darwin sciaguratamente prese da Spencer), “legge della jungla”, “gene egoista”, e così via, che non siamo più in grado di pensare i fenomeni e l’evenemenzialità (a malapena ci riusciamo coll’Uomo, ma per ragioni di separazione binaria, cioè per l’antropocentrismo che, nonostante la biologizzazione dell’umano, ci aggiunge sempre, in qualche salsa, un residuo di “spirito”).
        A parte rari casi, la biologia è stata data in pasto alle sue metafore politiche.

        Fare buona filosofia, come dicevo sopra, corrisponde al dismettere la dicotomia natura-cultura. A mio parere l’a migliore via d’uscita (non dico l’unica) da questo dilaniante tiro alla fune è prendere sul serio ciò che Heidegger chiamava *anwesen*, cioè venire-alla-presenza, che include, seppure secondo modalità diverse, physis e poiesis (e quindi techne). Anwesen non è la presenza di ciò che è presente e che, in modo derivato, si può ridurre ad oggetto di saperi regionali (p es la biologia contro la sociologia), ma il dono abissale (l’es gibt) che permette alla presenza di essere tale, e insieme di ritirarsi nell’assenza. E’ ciò che permette il manifestarsi del fenomeno, e che in questo modo ci prende sempre in contro-tempo. Physis non è allora la parola greca per Natura come la intendiamo almeno dal Rinascimento ad oggi, ma il nome di questo “flusso” differenziale e topologico (in senso sincronico e diacronico) dell’anwesen, del sorgere che si occulta (secondo il detto di Eraclito) sempre inaudito e irrapresentabile. E dato che questo “donarsi” precede fondamento e causalità, Heidegger lo descrive spesso come “gioco” (un gioco che appunto precede le regole). Per tutti questi temi rimando a Dai principi all’anarchia del compianto Reiner Schurmann,

        In più si dovrebbe aprire una questione immensa, se vogliamo parlare di “egoismo”: perché per parlare di egoismo avremmo bisogno di “soggetti”, e anche qui, io non ne vedo alcuno in giro. Il “soggetto” è finito con la storia della metafisica fondazionista, e ci rimangono solo singolarità esposte, il cui interno è stato scavato via da esposizione e contatto.

        A proposito di singolarità senza tassonomia: chi te lo ha detto che nessuno si innamora di animali di altre specie? E qui intendo sia umani che non umani. Non hai mai visto cani che si innamorano di gatti, ratti di cani, e così via? Non sai che la cosiddetta zooerastia (che non è lo zoo-sadismo, avendo comunque un nome orrendo, del tutto antropocentrico) è considerata ormai una parafilia e non più una perversione?
        Parafilia significa semplicemente un modo “strano”, “anomalo”, rispetto alla media statistica, di orientare la propria affettività.
        Non starò qui a discutere la liceità del metterla in pratica, a fare distinzioni ecc… perché non è questo è il punto.
        Il punto è piuttosto che se la storia dell’Uomo è stata la storia della sua separazione dalle relazioni con l’immensità delle singolarità che lo circondavano, l’autocostituzione essenzialistica come categoria omogenea, come identico, insieme alla compressione all’identico di tutto il resto ne l’Animale: ci pare strano che data questa separazione categoriale, identificante, gerarchizzante, appaia “anomalo” e “strano” innamorarsi di singolarità che continuiamo a dire “non umane” (come se questo avesse ancora un senso)?
        Il doppio “strano” della mia domanda indica che “strano” sarebbe il contrario.
        Ma la stranezza sta finendo, nel senso che sta esplodendo, benché come a rallentatore: tutti siamo strani, gli uni agli altri, estranei, stranieri. Secondo linee di fuga di incontri, relazioni, alleanze, dilezioni, che rompono tutte le categorie.
        D’altra parte fino a qualche secolo, in alcuni luoghi decennio, fa – in altri ancora – l’amore fra un bianco e un nero era considerata una bestialità (guarda caso) contro Natura (cioè violava le leggi naturali…).
        Non che io abbia fede nel progresso. Ma nell’autoconsumazione dei fondamenti sì, una certa fiducia.

  3. simulAcro ha detto:

    Ottimo articolo (insieme alla prima parte) che, per quanto mi riguarda, merita una seconda e più attenta lettura, visti anche i tanti spunti offerti nel testo.

    Uno di questi spunti, che mi interessa particolarmente, deriva dal fatto che durante la lettura ho potuto rinvenire nel testo diversi richiami a Boockcin. Uno di questi è certamente esplicito e diretto (una citazione) ma non so se, e in che misura, gli altri siano mie estrapolazioni personali o riferimenti “voluti” dall’autore, per quanto indiretti. Parlo di riferimenti (quelli che mi è parso di leggere) legati alla rappresentazione della natura e dell’alterità umana, alla critica del darwinismo e del concetto di specie, alla nozione ecologica dell’evoluzione naturale legata agli ecosistemi, all’unità nella diversità, al “singolare collettivo” e via dicendo.

    Quanto ho detto per proporre un approfondimento, una sorta di analisi comparata tra antispecismo ed ecologia sociale che, mi pare, potrebbe essere molto interessante e proficua.

    Sarei grato a Antonio Volpe se volesse mettere a disposizione qui stesso i suoi strumenti (ben più affinati dei miei) per aiutare me (e altri/e che fossero eventualmente interessati/e) a capire quali siano i punti di contatto e di divergenza tra le due cose.

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